Delocalizzazione, oltre 27.000 imprese sono fuggite dall’Italia

0
455
Bortolussi: “le tasse, la burocrazia, il costo del lavoro, il deficit logistico-infrastrutturale, l’inefficienza della Pubblica amministrazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresentano degli ostacoli spesso insuperabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima nei confronti dell’azienda è più favorevole”.

La crisi, probabilmente, ha frenato la “fuga” delle aziende tricolori all’estero, ma i numeri sono di tutt’evidenza. Da un’elaborazione realizzata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre emerge che il numero delle imprese italiane che al 31 dicembre 2011 (ultimo dato disponibile) hanno trasferito all’estero una parte dell’attività produttiva  è di poco superiore alle 27.100 unità. Se in questi ultimi anni la crescita del numero delle aziende interessate dal fenomeno della delocalizzazione è stato abbastanza contenuto (+ 4,5% tra il 2008 ed il 2011), nell’arco temporale che va dal 2000 al 2011 l’incremento è stato molto consistente: +65% (la ricerca riguarda solo le imprese con più di 10 dipendenti e con un fatturato superiore a 2,5 milioni di euro). Alla fine del 2011 ammontavano a poco più di 1.557.000 i posti di lavoro creati da queste aziende oltre confine. Posti di lavoro sottratti all’economia nazionale.

“Premesso che in questi ultimi decenni la delocalizzazione produttiva ha interessato tutti i paesi più industrializzati del mondo – sottolinea il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – fare impresa in Italia è molto più difficile che altrove. Le tasse, la burocrazia, il costo del lavoro, il deficit logistico-infrastrutturale, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresentano degli ostacoli spesso insuperabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima nei confronti dell’azienda è più favorevole”.

Il Paese più attrattivo per i nostri imprenditori è la Francia: sono 2.562 le aziende italiane che hanno trasferito una parte della propria filiera produttiva nel paese Transalpino. “Un elemento di forte richiamo – prosegue Giuseppe Bortolussi – è la certezza del diritto. In Francia i tempi di pagamento sono più puntuali e più rapidi di quanto avviene da noi. La giustizia francese funziona e chi non paga viene perseguito e sanzionato. Senza contare che i tempi di risposta delle autorità locali sono strettissimi, al contrario di quanto succede in Italia dove l’unica certezza sono i ritardi che accompagnano quasi ogni pratica pubblica”.

Dopo la Francia, tra i paesi che hanno attratto gli interessi delle imprese italiane si troviano gli Stati Uniti (2.408 aziende), la Germania (2.099 imprese), la Romania (1.992 unità produttive) e la Spagna (1.925 aziende). La Cina è al settimo posto, con 1.103 imprese italiane che hanno scelto di proseguire la propria attività produttiva in estremo oriente.

Le regioni più investite dalla “fuga” delle proprie aziende verso l’estero sono quelle del Nord. In Lombardia se ne contano 9.647, in Veneto 3.679, in Emilia Romagna 3.554 e in Piemonte 2.806. Messe tutte assieme costituiscono oltre il 72% del totale delle imprese che hanno lasciato l’Italia.

“La delocalizzazione – conclude Bortolussi – ha una valenza economica, ma anche sociale e politica. Se da un lato la delocalizzazione tende ad aumentare la competitività di un’attività produttiva, dall’altro si corre il rischio di far crescere la disoccupazione nell’area in cui ha origine. Ciò rischia di avvenire se i lavoratori fuoriusciti dalle attività produttive non sono reimpiegati in altre attività presenti in loco. Visto che la delocalizzazione ha investito soprattutto le regioni italiane dove il tasso di disoccupazione è ancor oggi tutto sommato abbastanza contenuto, possiamo dire che questo fenomeno non ha dato luogo a grossi problemi occupazionali”.

Quali sono i settori più interessati da questo fenomeno? Quasi un’impresa su due (48,3% del totale) opera nel commercio all’ingrosso (in valore assoluto sono 13.124 aziende). Si tratta, ad esempio, di attività legate agli intermediari del commercio, del commercio all’ingrosso di prodotti alimentari e bevande, di apparecchiature high-tech e di altri macchinari e attrezzature. Attività prevalentemente costituite dalle filiali commerciali di imprese manifatturiere. Segue l’industria manifatturiera (28,6% del totale) e la logistica (6,2% del totale).