“Reverse charge” allargato alla Gdo: preoccupazione delle imprese aderenti a Confindustria Modena

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iva indice crescita
iva indice crescitaAziende a rischio di danni finanziari: con un surplus di credito Iva, le imprese divengono finanziatori netti dello Stato senza alcun corrispettivo

L’Iva è una delle imposte a più elevato rischio evasione. Per questo il governo, con la legge di “Stabilità” 2015, ha introdotto particolari meccanismi di gestione per contrastare gli abusi e i fenomeni illegali. Come spesso accade, non bastano le buone intenzioni. A maggior ragione quando ci si deve misurare con materie complesse come la normativa fiscale. Il rischio concreto è non solo di non riuscire a contrastare l’evasione ma di mettere in ginocchio interi comparti dell’industria italiana, dall’agroalimentare agli elettrodomestici.

È il caso del cosiddetto “reverse charge” (o inversione contabile) dell’Iva che la legge di “Stabilità” 2015 allarga anche al settore commerciale della grande distribuzione (Gdo). La misura, per la precisione, non è ancora operativa ma è al vaglio degli organi Ue per l’eventuale autorizzazione. Per “reverse charge” s’intende un particolare meccanismo (in deroga alla disciplina generale) che prevede il trasferimento di una serie di obblighi relativi alle modalità con cui viene assolta l’Iva tra chi vende e chi acquista. Di fatto, le aziende che vendono alla Gdo pagheranno l’Iva ai propri fornitori, ma non potranno compensare l’imposta sui beni venduti alla Gdo in quanto, per effetto del “reverse charge”, il versamento spetterà alla Gdo stessa. Questa misura si traduce in una sorta di prestito forzoso all’Erario.
Le imprese che cedono beni non incasseranno più l’Iva, che sarà versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Pertanto, verranno a maturare consistenti quantità di Iva a credito e saranno quindi costrette a chiederne il rimborso, con attese lunghissime (in Italia mediamente sui 18-20 mesi) e con crescenti difficoltà sul fronte della liquidità.
Confindustria Modena si fa portavoce della preoccupazione delle imprese del territorio, moltissime delle quali sono partner della grande distribuzione, e sostiene le azioni che Confindustria nazionale ha intrapreso. In particolare la denuncia presentata alla Commissione Ue, in cui rimarca come il reverse charge sia un cambiamento che può avere effetti devastanti sulla liquidità delle imprese e sui piani di investimento futuri. Confindustria evidenzia che l’Italia è nota per i tempi lunghi con cui effettua i rimborsi dei crediti Iva, e il meccanismo di inversione contabile rischia di acuire i ritardi nell’erogazione dei rimborsi. Tanto che viale dell’Astronomia sta lavorando parallelamente a una proposta di emendamento in Parlamento che punta ad aumentare da 700.000 a un milione di euro la soglia di compensazione dei crediti Iva, per cercare di mitigare la portata degli effetti del reverse charge. Gli industriali affermano nella nota diffusa che «il contrasto a ogni tipo di evasione fiscale deve essere perseguito con fermezza. L’introduzione di tipologie di “reverse charge” ulteriori rispetto quelle elencate dalla direttiva Iva deve essere valutata con estrema cautela e può essere consentita, come prevede la normativa comunitaria, solo in presenza di rischi di frode ampiamente documentati. Non è questo il caso delle forniture alla grande distribuzione organizzata».
Le direttive comunitarie che consentono la deroga del “reverse charge” non includono settori riconducibili alla Gdo, che si caratterizza per la presenza di operatori mediamente ben strutturati e non a rischio frodi. Il “reverse charge” per la Gdo sembra non essere in grado di produrre risultati sul fronte della lotta all’evasione, ma piuttosto appaiono inevitabili le pesanti ripercussioni che avrà sulle imprese fornitrici.
Il dubbio che questa misura sia stata pensata più che altro per risolvere problemi di politiche di bilancio trova un fondamento: tutto questo dovrebbe portare, secondo la valutazione dei documenti programmatici di bilancio per il 2015 del governo, una maggiore entrata di circa 728 milioni annui; cifra che, nel caso Bruxelles non rilasci l’autorizzazione in deroga, sarà recuperata attraverso aumenti di accisa sui carburanti.