Alimentare, vola export dei salumi italiani: +91% in 10 anni

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Le imitazioni alimentari illegali costano al sistema produttivo nazionali 100 miliardi di danni. Cresce l’apporto del cibo “bio”, organico e a “km zero”

salumi affettati 2Cibus Connect che si è svolto a Parma ha fatto il punto su alcuni aspetti della filiera alimentare, evidenziandone potenzialità e tendenze.

Secondo Agrifood Monitor, realizzato da Nomisma e Crif, nel 2016 ogni 100 euro di vendite dell’industria delle carni, 12 sono state realizzate in paesi esteri per un valore complessivo dell’export di 2,8 miliardi di euro (9% del totale alimentare). La progressiva crescita delle vendite estere, che ha fatto segnare un +75% nel corso degli ultimi 10 anni, ha consentito al settore di controbilanciare la contemporanea contrazione dei consumi interni. 

Gli italiani mangiano sempre meno carne, come dimostra il calo dei consumi pro-capite passati dagli 80,4 Kg del 2005 ai 74,5 del 2015. La componente più dinamica delle esportazioni di carne è quella dei salumi e derivati, che con 1,6 miliardi di valore nel 2016 (56% del totale carni) ha quasi raddoppiato il proprio valore rispetto al 2006 (+91%) e mostra segnali positivi di crescita anche nel corso dell’ultimo anno (+4,5%). 

Punto di forza del prodotto italiano è la qualità, come dimostra il forte differenziale di prezzo rispetto agli altri competitor mondiali: con 8,1 euro/kg l’Italia stacca nettamente i grandi esportatori spagnoli (5,70 euro/kg), tedeschi (4,2 euro/kg) e statunitensi (3,5 euro/kg) e polacchi (3,0 euro/kg), sebbene li segua a distanza sul fronte delle quantità. Nel mercato mondiale l’italia ha una quota pari al 7,7% su un valore totale di 21 miliardi di euro nel 2016. Di questi 3,4 miliardi (16% del totale) sono concentrati nel Regno Unito, primo mercato di importazione di salumi, con positivi trend di crescita nel corso degli ultimi 10 anni (+33%). I consumatori inglesi figurano anche fra i principi destinatari del prodotto italiano (11% del valore dell’export della penisola), ma sono preceduti da quelli tedeschi (21%) e francesi (17%). Quindi, data la rilevanza del mercato d’oltremanica e il suo positivo andamento, vi sono ampie opportunità che possono ancora essere colte dalle imprese italiane.

Al successo del cibo tricolore fa da contraltare il pesante danno causato dalle imitazioni illegali: secondo il presidente di Federalimentare Luigi Scordamaglia, «continuo a leggere in giro che il falso “Made in Italy” costerebbe 60 miliardi di euro, ma è un cifra assolutamente sottostimata. Credo invece che la cifra reale sia sui 100 miliardi di euro, per il semplice fatto che solo gli Stati Uniti vendono 27 miliardi di “food and beverage” a evocazione italiana». In occasione di Cibus Connect, Scordamaglia ha anche annunciato la nascita di una nuova agenzia di informazione quotidiana con approfondimento in inglese che darà più copertura e visibilità alla realtà dell’industria alimentare italiana: «più si parla bene e correttamente di alimentare, più le opportunità crescono». 

Anche i prodotti di nicchia crescono con decisione: cibo bio, organico, a “km 0”, e senza ingredienti che possono causare intolleranze fanno boom in mercati evoluti come gli Usa (valgono 15 miliardi), e anche in Italia sono in decollo da qualche anno, a un tasso dell’8-9% all’anno, per un valore di 1 miliardo. La Grande distribuzione organizzata tiene conto di questo e sta allargando gli spazi dedicati a questi prodotti. E’ quanto emerge da un’analisi di The Boston Consulting Group: «non è vero che negli Usa si mangia solo l’hamburger – osserva Lamberto Biscarini, senior partner e managing director di The Boston Consulting Group – almeno il 70% dei consumatori americani ha provato uno o più prodotti di consumo responsabile, c’è un grande interesse. La categoria più sviluppata è il cibo per bambini ma anche carne, ortofrutta e carta. Anche in Italia la domanda è in forte crescita e la Grande distribuzione organizzata ne tiene conto».