Decisa frenata pentastellata sulla maggiore autonomia regionale

A fare scattare il riflesso grillino le pressioni del bacino elettorale meridionale che teme di perdere la mancia erogate dalle regioni ricche del Nord. Zaia, Fontana e Bonaccini fanno buon viso a cattivo gioco. 

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Era nell’aria e puntualmente è arrivata la poderosa frenata sul percorso di concessione di maggiore autonomia alle regioni Veneto e Lombardia e, in misura minore, per l’Emilia Romagna. Il Consiglio dei ministri ha registrato il vigoroso rallentamento sulla corsa del treno della maggiore autonomia imposto dagli esponenti M5s decisamente timorosi che la concessione alle regioni virtuose del Nord si tramuti nella cessazione delle mance erogate a favore delle fameliche clientele sudiste, costrette alla dieta forzata e al conseguente caldo del voto di scambio.

Le pressioni che si sono intensificate negli ultimi giorni sugli esponenti pentastellati hanno avuto l’esito sperato, con il rinvio della firmadelle tre intese a tempi migliori. Sul tavolo, l’aspetto del contendere è legato al finanziamento delle nuove competenze alle regioni che hanno chiesto la maggiore autonomia.

Nonostante l’esito dei due referendum autonomistici celebrati in Veneto e in Lombardia un anno fa, M5s ha maggiormente a cuore il proprio bacino elettorale, dove alle elezioni politiche del 2018 ha fatto man bassa. Anche se il governatore Luca Zaia afferma che «il 70% delle richieste presentate è stato accolto dal Governo», manca ancora la “quadra” sulla gestione delle infrastrutture e delle concessioni elettriche e portuali (Toninelli, M5s), sul comparto sanitario (Grillo, M5s), sull’ambiente (Costa, M5s) e sulla cultura (Bonisoli, M5s). «Se si risolvono questi punti firmiamo» ha precisato Zaia, ben conscio che questa soluzione non sarà dietro l’angolo.

Anche sul fronte lombardo, i punti cruciali sui quali manca l’accordo riguardano materie di competenza grillina: ticket sanitari, valutazioni d’impatto ambientale, bonifiche, infrastrutture e regionalizzazione delle soprintendenze. Per il governatore Attilio Fontana, che come il collega veneto ha richiesto tutte e 23 le materie previste dall’articolo 116 della Costituzione, si è detto fiducioso: «ci sono aspetti da chiarire, ma va bene. Sulle risorse che dovranno essere trasferite per le nuove attività che svolgeremo è stato raggiunto un accordo col ministero dell’Economia».

Per entrambe, uno dei nodi più complessi da sciogliere è legato al settore dell’istruzione che, con l’ingente numero di personale addetto, porta con se anche una cospicua dotazione finanziaria, circa un miliardo di euro per la Lombardia e circa 600 milioni di euro per il Veneto.

L’Emilia Romagna, a differenza del Veneto e della Lombardia, non ha indetto il referendum ma ha cercato direttamente l’intesa con l’allora governo Gentiloni, reclamando maggiore autonomia su 15 materie. Tra queste: tutela e sicurezza del lavoro, istruzione, ricerca, protezione civile, agricoltura, salute, sport e cultura. «Sono stati fatti passi avanti – ha detto il governatore Dem Stefano Bonaccini – ma l’intesa va ancora trovata, e su questa aspettiamo fatti e risposte concrete».

Anche se dalla seduta del Consiglio dei ministri è uscita una fumata grigia, vanno invece a tutto vapore le polemiche propalate dai contrari alla maggiore autonomia delle tre regioni del Nord: da quelle del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris a quelle del suo collega di Regione Vincenzo De Luca (che, però, ha dichiarato di voler anche lui salire sul treno della maggiore autonomia assieme a Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche ed Umbira), al presidente del Lazio Nicola Zingaretti che temono il nascere di un’Italia suddivisa in più classi su base territoriale.

Peccato che tutti costoro lo Svimez (l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), nel suo ultimo rapporto metta nero su bianco che dal 2000 al 2016 il Meridione ha incassato ben 325 miliardi di euro. Un’ingente massa di denaro che invece di creare sviluppo, crescita culturale, sociale ed economica è finita solo per alimentare le fameliche clientele che albergano in quei territori, trasmigrate armi e bagagli dai “vecchi” partiti (Forza Italia e Partito Democratico in primis) al “nuovo” M5s, che ora ha il terrore di tagliare il ramo su cui s’è seduta gran parte della propria sgarrupata classe dirigente.

Altri studi, quelli della spesa standard e dell’efficienza amministrativa, evidenziano come se tutte le Regioni adottassero il modello lombardo nella capacità della spesa pubblica, il Paese tutto risparmierebbe ogni anno 60 miliardi. Praticamente cinque volte l’ammontare della manovra di bilancio 2019 condotta quasi tutta in deficit. Soldi che potrebbero abbattere rapidamente il mostruoso debito pubblico senza ulteriori manovre nel giro di qualche lustro.

Tocca ai grillini decidere se impersonare il “vecchio” e perpetrare l’atavico assistenzialismo piagnone del Sud Italia o impersonare quel “nuovo” che in ogni occasione, a parole, dicono di perseguire. Fino ad ora, i fatti vanno in direzione opposta a quanto proclamato dagli esponenti pentastellati. Tocca a Luigi Di Maio darsi una regolata e decidere se veramente vuole un’Italia più moderna, efficiente ed equa, oppure andare avanti con le vecchie ricette dei vecchi e tanto odiati (a parole) partiti.

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