Il Festival Internazionale di Teatro di Venezia 2019 cattura l’attenzione del pubblico

28 spettacoli in 15 giorni per la 47a edizione della Biennale Teatro. Un incremento di spettatori del 16%; sale piene al 90%, per un totale di 9.000 presenze.  Di Giovanni Greto 

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Festival Internazionale di Teatro

E’ sempre consigliabile assistere agli spettacoli del Festival Internazionale di Teatro della Biennale di Venezia. La mente si allarga, si vengono a conoscere nuove creatività, nuove scritture e improvvisazioni, molto spesso assenti nei teatri di tutt’Italia, i quali per la maggior parte hanno in cartellone capolavori del teatro classico.

Il terzo e penultimo atto del suo quadriennio di direttore del settore Teatro, Antonio Latella lo ha intitolato “Drammaturgie”. Nel primo aveva cercato di «creare un Focus sulla regia, mettendo una lente d’ingrandimento sulle registe europee; sorpreso di fronte alla quantità di linguaggi proposti, come se ogni artista concentrasse la propria ricerca sul bisogno di trovare una propria lingua, una personale grammatica di scrittura scenica».

Nel secondo, Latella ha provato a «indagare se esistesse ancora una differenza tra attore e performer. Il rapporto con lo spazio scenico, insieme a quello sempre diverso che si instaurava con il pubblico, ha contribuito a creare nuove pagine di scrittura teatrale, alcune convenzionali, altre che attingevano alle esperienze dei grandi maestri del Novecento, per creare un ponte con questo secolo; opere rivolte a un pubblico che ha oggi a disposizione nuovi mezzi di decodifica. I due primi atti portano quindi a questo terzo, Drammaturgie, titolo volutamente lasciato al plurale, proprio perché nel 21esimo secolo sono tante e differenti le drammaturgie per la scena e per tutto ciò che concerne lo spettacolo dal vivo».

In questo terzo atto, Latella ha cercato di evidenziare diversi tipi di drammaturgia e dell’essere drammaturghi, citando come prima per importanza «la drammaturgia destinata al teatro-ragazzi, nata per creare un nuovo pubblico, crescerlo e proteggerlo dall’ovvietà, proponendo grande teatro non rivolto soltanto a un pubblico giovane o molto giovane».

A conferma di quanto asserito, il Leone d’Argento è andato al regista olandese Jetse Batelaan (1978), direttore artistico dal 2013 del Theater Artemis, la compagnia leader del settore del teatro-ragazzi in Olanda. La motivazione del premio parla di «un artista che ha saputo imporsi nel panorama internazionale, con una forte impronta personale. Proponendo opere di forte impatto visivo, Batelaan rilegge i miti contemporanei, creando una magia scenica in grado di sedurre anche lo spettatore più scettico, grazie ad un uso sapiente della macchina teatrale; rivolgendo per scelta le sue opere principalmente a un pubblico di adolescenti e bambini, Batelaan riesce a coinvolgere persone di ogni età, caratteristica che è propria del grande teatro popolare».

Al teatro Goldoni sono andati in scena due lavori del regista premiato. Il primo, “The story of the story” (2018), è un viaggio a ritroso di 95 minuti alle radici dell’immaginazione per interrogarsi sul concetto di racconto in questi tempi postmoderni. Il lavoro è un continuo susseguirsi di trovate spiazzanti per un pubblico adulto, figurarsi per dei ragazzi. Protagonisti sono una troupe di cacciatori-raccoglitori, oggetti astratti che prendono autonomamente vita, il pubblico, coinvolto nella trama da improvvisi blitz degli attori, una famiglia della classe media rappresentata con giganteschi totem di Donald Trump (il padre), Beyoncè (la madre), Cristiano Ronaldo (il figlio). Verso la fine, fa la sua comparsa il totem del dittatore nordcoreano Kim Jong-un.

Sembra rifarsi allo Slapstick dei grandi artisti del cinema muto – uno su tutti, Buster Keaton – il secondo lavoro, “War” (2017). In 50 interminabili minuti, tre attori mostrano al pubblico come si possa iniziare facilmente un percorso narrativo sulla guerra, anche se poi si rimane imprigionati al punto tale che è terribilmente complicato concluderlo con la pace. Gli attori, impauriti, alzano timidamente a più riprese bandiera bianca, ma ogni volta vengono bombardati da tutte le parti, dando vita ad un caos sul palcoscenico che si conclude con una domanda: “E’ finita adesso? Non lo so. Sì, penso di sì”.

Tra gli altri 13 spettacoli, a cui ho assistito, mi ha conquistato e convinto “Estado vegetal” (2016), un lavoro lungo 80 minuti della regista cilena Manuela Infante, corresponsabile della drammaturgia assieme alla bravissima interprete Marcela Salinas. Ecco come l’autrice descrive lo spettacolo: «la performer sperimentale Marcela Salinas interpreta sette diversi personaggi – o voci – registrando e costruendo i dialoghi utilizzando il loop dal vivo. La sottoscritta, nella veste di musicista, ha progettato e dirige il suono».

Ma come definire “Estado Vegetal”? Si tratta di «un monologo polifonico, ramificato, esuberante, reiterato, divisibile e sessile. Protagonista è una donna che non è una singola persona, è uno sciame. Non è uno spettacolo animale, è uno spettacolo vegetale. Con l’insieme dei miei lavori ho imitato forme di radicale alterità». Qui le domande sono state: «Come sarebbe un teatro vegetale? Come sarebbe una forma di narrativa vegetale? Come sarebbe una forma di recitazione vegetale?» e così via. In “Estado vegetal” questo determina una struttura narrativa ramificata, una concezione fototropica delle luci, una forma polifonica di recitazione che vede l’attrice come molteplicità, piuttosto che come singola persona, un testo drammatico modulare, ecc. L’esplorazione consiste nel sondare i modi in cui nuovi concetti come l’intelligenza vegetale, l’anima vegetale o la comunicazione vegetale possono trasformare la nostra pratica creativa e fungere da modelli per nuovi modi di stare al mondo. Citando le parole del filosofo Michael Marder «riconoscere un “altro valido” nelle piante è anche iniziare l’altro vegetale che è in noi. Concepite con un team artistico tutto al femminile, le singole storie di “Estado vegetal” si diramano dallo scontro di un motociclista contro un albero e procedono a immaginare uno scenario in cui le piante decidono di reclamare il loro regno».

Tra i lavori più ostici, quelli che sembrano sferrare un pugno allo stomaco dello spettatore, è da citare “Mauser” (2017) del 43enne Oliver Frljic, originario della Bosnia-Erzegovina, laureato in filosofia e cultura religiosa e poi diplomato in regia all’Accademia d’Arte Drammatica di Zagabria. E’ un testo del 1970 dello scrittore tedesco, nato nella Germania dell’Est, Heiner Muller (1929-1995), il quale – afferma il regista – «affronta il tema della rivoluzione che inizia a divorare i suoi stessi figli. Si domanda per cosa oggi siamo pronti a uccidere, e ancora di più, per cosa siamo disposti a morire. Si occupa inoltre della dialettica del corpo, intesa nel concetto brechtiano di pièce didattica». Ambientato al tempo della guerra civile russa nella cittadina di Vitebsk, “Mauser”, nome del revolver automatico utilizzato in quella guerra, mette in scena il processo e l’esecuzione della condanna a morte del rivoluzionario A da parte di un “coro”. A è chiamato a giustiziare il suo predecessore B, colpevole di aver rilasciato tre contadini controrivoluzionari al posto di giustiziarli, e a sostituirlo nel suo mestiere di boia – uccidere i nemici della rivoluzione in nome della causa – finché a sua volta trova il compito insopportabile e diventa simbolo del fallimento politico. Per Frljic il lavoro di Muller interroga ancora oggi le contraddizioni della società, dove spesso guerre e conflitti sono intrapresi come strade di “pace”.

Infine, una giornata del Festival è stata dedicata ad un simposio intitolato “Pubblicare Teatro”. Federico Bellini, drammaturgo e assistente alla direzione artistica della Biennale Teatro, in qualità di moderatore ha invitato i rappresentanti di tre riviste segnalatesi per il loro importante contributo alla diffusione della drammaturgia teatrale -– Barbara Burkhardt, giornalista del periodico “Theater Heute” e in giuria al “Theatertreffen” di Berlino; Claudia Canella, collaboratrice fissa per quanto riguarda il teatro di prosa del “Corriere della sera” e dal 1998 direttrice della rivista “Hystrio. Trimestrale di teatro e spettacolo”, nonché moderatrice negli incontri con i registi durante il Festival; Robert Weinert-Kendt, caporedattore della rivista mensile “American Theatre” e critico teatrale per il New York Times, il “Time Out New York” e il “Los Angeles Times” – a confrontare le loro esperienze in un periodo storico in cui, forse soprattutto in Italia, le case editrici sembrano non divulgare testi di teatro. Si è cercato di capire se pubblicare teatro sia tuttora un’esigenza imprescindibile, perché, grazie al lavoro di queste riviste è stato possibile, in questi anni, scoprire autori inediti e sorprendersi dell’esistenza di nuove drammaturgie, a volte neppure ospitate dai teatri o difficilmente rappresentate.

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