Frank London al teatro Goldoni di Venezia ha presentato le canzoni del Ghetto

Composizioni originali e nuovi testi scritti per melodie esistenti a cura di un affiatato ottetto.  Di Giovanni Greto 

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frank london

Nel mezzo della festa di Pesach, Beit VeneziaCasa della cultura ebraica, ha organizzato un piacevole concerto al teatro Goldoni con il trombettista Frank London. Il termine Pesach, tradotto con “Pasqua”, deriva dal verbo ebraico Pasoah, che significa “passare oltre”, e si riferisce all’episodio in cui l’angelo della morte, durante la notte della decima piaga, si fermò nelle case degli egiziani colpendone tutti i primogeniti, ma “passò oltre”(pasach) le case degli ebrei, sugli stipiti delle quali, in segno di riconoscimento, era stato spruzzato del sangue dell’agnello sacrificale.

Pesach, prima di tre grandi ricorrenze liete della tradizione ebraica, commemora la liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Dura una settimana (8 giorni fuori di Israele), inizia il 15 del mese ebraico di Nissàn, la sera di venerdì 19 aprile, per concludersi al tramonto di venerdì 26.

Beit Venezia ha invitato ancora una volta il trombettista e compositore statunitense Frank London, il quale nel 2016 aveva composto ed eseguito la colonna sonora della prima storica messinscena del “Mercante di Venezia” di Shakespeare nel Ghetto di Venezia. London ha ideato “Ghetto Songs”, un progetto di «commemorazione del cinquecentenario del Ghetto che mantenendo Venezia come nucleo principale – scrive il musicista nel programma di sala – si è espanso a includere musiche e versi cresciuti nell’isolamento culturale imposto dalle mura del Ghetto. La parola Ghetto viene dal quartiere ebraico di Venezia, fondato nel 1516 nell’area di una antica fonderia di rame (getto)».

Il programma della serata ha proposto 17 canzoni, dando vita ad una sorta di viaggio musicale, che celebra le culture che fioriscono nel calderone dei ghetti di tutto il mondo. Oltre al leader, noto per essere stato il cofondatore dei Klezmatics, alla tromba e alla direzione musicale, c’era un settetto multietnico di musicisti. Alle voci, Sveta Kundish, da Chernobyl, specialista di musica Yiddish e il tenore libano-americano Karim Sulayam, interprete di opere e concerti e di recital di musica da camera. Convincenti entrambi, sia nelle parti soliste, che in quelle a due voci. Brandon Ross, da New York, chitarrista e a tratti cantante, vanta collaborazioni con jazzisti di fama mondiale. Greg Cohen, dal New Jersey, è contrabbassista richiestissimo in contesti innumerevoli, non solo jazzistici. Zeno De Rossi, batterista veronese sensibile, dal tocco delicato, è una presenza costante nel gruppo di Franco D’Andrea. Ilya Shneyveys, alle tastiere e alla fisarmonica, originario di Riga, è specializzato in musica ebraica contemporanea, dal Klezmer e Folk Yiddish a progetti fusion e sperimentali. Francesca Ter-Berg, da Londra, al violoncello e, a tratti, alla voce, studia diversi stili musicali, in particolare il Klezmer e la musica della Transilvania e della Romania.

Il concerto si è messo in moto con un funky morbido, “The Ghetto”, di Donny Hathaway ed è proseguito con alcuni brani classici come “O dolcezz’amarissime”, un armonioso corale musicato da Solomone Rossi, il principale compositore ebreo del Rinascimento, su di un testo di Luzzasco Luzzaschi. “Maoz Tsur” di Benedetto Marcello, che trascrisse armonizzandole originalmente melodie tradizionali degli ebrei italiani, è un salmo che si canta durante la festa di Hannukah. “Nigra sum” (1610), dai Vespri di Claudio Monteverdi, maestro di Cappella a San Marco a partire dal 1613. Dalla Polonia arriva una dolente “Eli, Eli, lomo asavtoni!” (mio Dio, mio Dio, perché ci hai abbandonato!), cantata in un’operetta di Jacob Sandler e Boris Tomashefsky. E’ stata interpretata dalla sola Sveta Kundish, che è riuscita a comunicare attraverso variazioni locali la tristezza del testo. In programma anche le consuete canzoni Kletzmer, assai ritmate, dall’atmosfera festosa come “Minutn fun bitukhn” del polacco Mordkhai Gebirtig (1877-1942), “momenti di speranza”. Fu scritta nel ghetto di Cracovia per incoraggiare gli ebrei ad essere pazienti e forti nella certezza che giustizia verrà fatta nei confronti dei nazisti. Simpatica, “la Barcheta”, cantata solisticamente da Karim Sulayam, allinea gli archi e il pianoforte in primo piano e un bel solo di violoncello. Fa parte di un ciclo di canzoni pubblicato nel 1901 con il nome di Venezia, composto da Reynaldo Hahn nello stile immaginato di una “Barcheta” (canzone di gondolieri), su di un testo di Pietro Buratti.

Trova spazio nel programma, poiché parla della favela, la versione brasiliana del ghetto, “O morro nao tem vez”, della premiata ditta Tom Jobim-Vinicius de Moraes. Bene arrangiata, con dei dinamici pianissimi, un solo diteggiato di violoncello, mentre London ha suonato il flicorno, ha visto protagonista vocalmente ancora Sveta. Il trombettista ha musicato, in un tempo di marcetta, cantando il refrain lui stesso, un testo di Angelo Beolco, commediografo veneto meglio conosciuto come Ruzzante (1502-1542), “Amore ah”, che racconta a modo suo la vita quotidiana nella campagna veneta. London ha musicato anche “Il tramonto di Fossoli”, un testo tristissimo di Primo Levi (1919- 1987), sopravvissuto ad Auschwitz. Voce solista ancora una volta la versatile Sveta e nuovamente violoncello e pianoforte in evidenza.

Il concerto si sarebbe concluso con “Tahi Taha”, un testo scritto da Momolo Mandolin, che descrive, nella parlata giudeo-veneziana, un gruppo di ebrei veneziani che osserva e commenta il passaggio di persone nel Ghetto. Frank London ne ha curato l’arrangiamento, a partire da una melodia tradizionale fornita dallo studioso Gabriele Mancuso. Il pubblico è però in fermento e allora come bis ecco “Capreto”, la versione popolare, sempre in lingua giudeo-veneziana, del canto “Chad Gadya”. Protagonisti, assieme ai due cantanti, due simpatici bambini che hanno duettato, per nulla intimoriti, assieme a Sveta e Karim, divertiti e messi a dura prova da una filastrocca che ripeteva in modo ciclico le parole del testo, e con un andamento ritmico sempre più veloce.

Applausi vivissimi, da parte di un pubblico in buona parte amico, per una serata di ottima musica, eseguita con sapienza interpretativa abbinata ad una convincente interazione tra tutti i musicisti dell’ottetto.

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