“Last dance”, l’ultimo lavoro di Keith Jarrett e Charlie Haden

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lastdance-jarret-ilnordestquotidianoEsce postumo a Haden il materiale inedito registrato nel 2007 a cura di Ecm Records
di Giovanni Greto

Nel marzo del 2007, Keith Jarrett aveva invitato Charlie Haden a casa sua per suonare ancora una volta assieme. In quattro giorni, chiusi nel piccolo studio del pianista, i musicisti produssero otto ore di ottima musica, che avrebbero portato a “Jasmine”, un disco uscito nel 2010. Quattro anni dopo, mentre Haden se n’è andato in silenzio l’11 luglio scorso, da quel materiale è stata tratta una seconda puntata, “Last Dance”.

Il repertorio, pur continuando ad essere fatto di canzoni d’amore e standard, si allarga fino a comprendere classici del jazz come “Round Midnight” di Thelonious Monk e “Dance of the Infidels” di Bud Powell, due pianisti che hanno influenzato generazioni di jazzisti più o meno famosi. IL CD dura come un concerto di questi tempi, bis compresi od esclusi. 76 minuti di tracce ben selezionate (9), eseguite da due interpreti fra i più sensibili. Dalle prime note di “My old flame”, che apre l’album, a “Goodbye” che lo chiude, uno dei due “alternate take” già presenti in “Jasmine” – l’altro è “Where can I go without you” – un tepore affettuoso, una quieta dolcezza, come se si venisse cullati dalla più magica e sognante delle ninna nanne, avvolgono l’ascoltatore.

Da “Life between the exit sings” del 1967, Jarrett e Haden avevano continuato a registrare assieme fino a “Eyes of the heart” (1976), un disco dal vivo che documentava i momenti finali del grande “quartetto Americano” del pianista, completato da Paul Motian alla batteria e Dewey Redman ai sassofoni. Dunque, poco più di 30 anni dopo si sono ritrovati come se non si fossero mai lasciati, talmente ricco di idee appare il loro interplay. Haden sembra assecondare Jarrett. In realtà, mediante un accompagnamento misurato, scarno, riesce a dare una connotazione personale, brano dopo brano. Jarrett, sentendosi protetto, rassicurato, spicca il volo: si alternano tempi lentissimi, lenti, medi, veloci.

Stupenda la versione di un brano bop come “Dance of the Infidels”, ben più veloce e piena di tensione rispetto a quella originale. I musicisti trasmettono con spontaneità il piacere di suonare, di tirar fuori quello che uno standard nasconde nel profondo e che nessuno mai prima era riuscito ad afferrare. Esemplare, in tal senso, la versione di “Round Midnight”. Jarrett gira intorno al motivo per quasi sette minuti, sui nove e trenta totali, depistando chi ascolta, finché si decide a far capire di quale brano si tratta, eseguendo in maniera canonica il conosciutissimo tema. Un altro aspetto positivo è una costante, estrema cantabilità, che accresce il respiro di ogni pezzo, mentre ognuno improvvisa senza pestare i piedi dell’altro, anche se ovviamente la tastiera arriva ad assicurarsi uno spazio maggiore. Ma le note appena sussurrate di Haden, lo stile sognante del fraseggio, lo rendono indispensabile nel dispiegarsi di qualsiasi tema. Un pensiero allora si fa strada: peccato che se ne sia andato, peccato non vederlo più sopra un palcoscenico, abbracciare lo strumento in maniera elegante ed amorosa, come se fosse una chioccia che protegge i propri piccoli. Qual è il pericolo per chi affronta un simile repertorio? Eccedere nel mettere troppa quantità di miele in una piccola fetta di pane. Sono riusciti i due musicisti ad evitarlo? Haden senz’altro sì. Jarrett, a un passo dall’arrivo, non riesce a tagliare il traguardo, appesantito dal consueto fastidioso “birignao”, che affiora spesso nei momenti improvvisativi, un commento di cui proprio non se ne sente la necessità e che può spezzare la magia dell’istante. Ancor meno apprezzabili risultano quei gemiti e lamenti che sembrano preludere ad un imminente orgasmo. Sgorgano davvero in maniera spontanea dall’animo del pianista, o fanno semplicemente parte di una meditata sceneggiata?