Impresa Italia: il 98% del totale di quelle attive è piccolissima con meno di 20 addetti

5 milioni di piccolissimi e micro imprenditori e da tanti artigiani, negozianti e liberi professionisti che danno al paese un contributo economico, fiscale ed occupazionale rilevantissimo. 

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Impresa Italia: il 98% circa del totale delle aziende presenti in Italia ha meno di 20 addetti. Una platea costituita da oltre 5 milioni di piccolissimi e micro imprenditori e da tanti artigiani, negozianti e liberi professionisti. Nonostante la dimensione aziendale di queste realtà sia molto contenuta, il contributo fiscale ed economico reso al Paese è rilevantissimo. A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre.

In materia di imposte e tasse, nel 2017 i lavoratori autonomi e le piccolissime imprese (ovvero solo quelle sottoposte agli studi di settore), hanno versato al fisco 43,9 miliardi di euro (pari al 53% del totale delle principali imposte versate dal sistema economico). Tutte le altre, prevalentemente medie e grandi imprese, hanno invece corrisposto “solo” 39,6 miliardi (il 47%).

Anche nel campo economico ed occupazionale i risultati sono sorprendenti. Al netto dei dipendenti del pubblico impiego, le aziende con meno di 20 addetti danno lavoro alla maggioranza degli italiani, vale a dire al 56,4% degli occupati. Inoltre, queste micro realtà producono il 40% del valore aggiunto nazionale annuo, score non riscontrabile in nessun altro grande Paese dell’Unione europea.

«Abbiamo un’economia che si regge su imprese bonsai – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi dell’Associazione artigiani di Mestre, Paolo Zabeo – ma con performance fiscali ed economiche da giganti. Purtroppo, a differenza di un tempo, la competitività del Paese risente soprattutto dell’assenza delle grandi imprese. Da alcuni decenni queste ultime sono scomparse, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole realtà produttive, ma a causa dell’incapacità dei grandi protagonisti, prevalentemente di natura pubblica, di reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione».

Sino agli inizi degli anni ’80, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.), l’economia del Paese ruotava attorno a questi comparti. A distanza di quasi 40 anni, invece, l’Italia ha perso terreno e la preminenza in quasi tutti questi settori. E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma a seguito di una selezione naturale compiuta dal mercato.

Alla luce di queste specificità, la Cgia chiede con forza che si torni a guardare con maggiore attenzione al mondo delle imprese, in particolar modo alle piccole e alle micro, visto che, ad esempio, l’ammontare del debito commerciale della pubblica amministrazione nei confronti dei fornitori sfiora i 60 miliardi di euro e circa la metà di questo importo è riconducibile ai mancati pagamenti, tanto dallo scoraggiare a lavorare per il comparto pubblico tantissimi fornitori, se non vogliono rischiare il fallimento per colpa dello Stato.

Alla politica i piccoli imprenditori della Cgia chiedono di abbassare quanto prima la tassazione sulle famiglie e sulle piccole e micro imprese in modo da rilanciare i consumi interni e l’occupazione. Gli artigiani mestrini, infine, chiedono di rilanciare anche gli investimenti, soprattutto quelli pubblici, che sono una componente del Pil poco rilevante in termini assoluti, ma fondamentale per la creazione di ricchezza. Non migliorando la qualità e la quantità delle nostre infrastrutture materiali, immateriali e dei servizi pubblici il nostro paese è destinato al declino. Senza investimenti, infatti, non si creano posti di lavoro stabili e duraturi in grado di migliorare la produttività del sistema e, conseguentemente, di far crescere il livello medio delle retribuzioni.

Il crollo avvenuto in questi ultimi anni, secondo la CGIA, è stato causato sicuramente dagli effetti negativi della crisi, ma anche dai vincoli sull’indebitamento netto che imposti da Bruxelles. Tali vincoli potrebbero essere superati, se, come prevedono i trattati europei, si riuscisse a ricorrere alla cosiddetta “golden rule”, la possibilità che gli investimenti pubblici in conto capitale siano scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli stati membri.