Con tasse europee, ogni famiglia italiana risparmierebbe 1.500 euro all’anno

La Cgia analizza la situazione fiscale in Europa. Zanetti: «nella riforma fiscale trattare allo stesso modo tutti i redditi, senza penalizzare, come ora, quello degli autonomi».

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Se si potesse contare su una pressione fiscale pari a quella media europea, ogni famiglia italiana risparmierebbe 1.506 euro di tasse all’anno. La Cgia di Mestre è giunta a questo risultato comparando la pressione fiscale di tutti i 28 paesi dell’UE. Dopodiché, ha calcolato quanto pagherebbe in più o in meno di tasse una famiglia media italiana (composta, secondo l’Istat, da 2,3 componenti) se subisse la pressione fiscale del paese europeo oggetto del confronto. Avendo registrato una pressione fiscale superiore di 2,2 punti percentuali rispetto al dato medio dell’Unione, nel 2019 ogni famiglia italiana avrebbe così risparmiato 1.506 euro. 

Nella manovra 2021 è necessario un taglio da 20 miliardi

«Con la prossima legge di Bilancio è necessario un intervento choc che nel giro di qualche anno riduca di almeno 3-4 punti percentuali la pressione fiscale – attacca il coordinatore dell’Ufficio studi Cgia, Paolo Zabeo -. Chi ritiene che siano sufficienti solo 10 miliardi si sbaglia di grosso: questa cifra è insufficiente. Per il 2021 è necessaria una contrazione di almeno 20 miliardi di euro e questo obiettivo potrà essere raggiunto solo se si riuscirà ad abbassare, di pari importo, la spesa pubblica improduttiva e una parte delle agevolazioni fiscali. Compiere questa operazione, comunque, non sarà per niente facile. Negli ultimi 10 anni, la revisione della spesa pubblica non ha prodotto risultati apprezzabili, mentre il numero delle deduzioni e delle detrazioni fiscali è aumentato a dismisura, soprattutto in questo periodo di Covid-19».

Gli italiani pagano tanto per avere pochi servizi, spesso scadenti

Un peso tributario eccessivo come quello presente in Italia costituisce un problema sia perché alleggerisce la disponibilità economica di tante famiglie e di altrettante imprese, sia perché drena risorse che altrimenti potrebbero essere investite per favorire i consumi, gli investimenti e, quindi, lo sviluppo del sistema economico. 

«Con un carico fiscale così eccessivo e una platea di servizi erogati dalla pubblica amministrazione che negli ultimi anni è scesa sia in termini di qualità che di quantità, questa situazione ha contribuito a determinare una contrazione della domanda interna e un crollo degli investimenti pubblici – afferma il segretario della Cgia, Renato Mason -. Ma oltre a tagliare le tasse è altrettanto importante semplificare il sistema fiscale italiano. Pagare le imposte è diventato sempre più difficile: lo dicono gli esperti, come i commercialisti e i tecnici delle associazioni di categoria. Figuriamoci come la pensano i piccoli imprenditori che oltre a occuparsi della propria attività, spesso sono chiamati a misurarsi con una burocrazia fiscale astrusa e scriteriata che non ha eguali nel resto d’Europa». 

Quest’anno il peso fiscale è destinato a salire nuovamente

Stando agli ultimi dati disponibili (media anno 2019), la pressione fiscale in Italia si è fermata al 42,4% del Pil, in aumento rispetto al 2018 di 0,7 punti percentuali. Quest’incremento è avvenuto dopo 5 anni di costante riduzione del carico fiscale. Dopo il picco massimo di tutti i tempi toccato nel 2013, il peso di tasse e contributi ha cominciato a scendere, in particolar modo con l’esecutivo guidato da Renzi che, tra le altre cose, ha eliminato l’Imu sulla “prima casa” e ha alleggerito il costo del lavoro dei neo assunti. Cosa succederà quest’anno? Premesso che con la pubblicazione della Nota di aggiornamento al DEF prevista nei prossimi giorni si avrà contezza della soglia raggiunta quest’anno, c’è l’impressione che la pressione fiscale sia destinata ad aumentare ulteriormente. Non tanto perché sono state ritoccate all’insù le aliquote, cosa che infatti non è avvenuta, ma perché si sta registrando una caduta verticale del Pil più significativa della contrazione registrata dalle entrate. 

Per pressione fiscale l’Italia è al VI posto in UE 

Tra i 28 paesi che nel 2019 costituivano l’Unione europea, l’Italia si è classificata al sesto posto per quanto riguarda il peso della pressione fiscale in percentuale del Pil. La Danimarca presenta il carico fiscale più importante (47,6%), seguono la Francia (47,3%), il Belgio (45,5%), la Svezia (43,5%) e l’Austria (42,9%). Il sesto posto di questa particolare graduatoria è occupato dall’Italia che nel 2019 ha registrato una pressione fiscale del 42,4%. Tra i principali competitor italiani, la Germania presenta un peso fiscale complessivo del 41,6%, il Regno Unito e la Spagna, entrambe con un carico fiscale complessivo del 35,2%, possono addirittura contare su un differenziale di 7,2 punti di tasse in meno rispetto al Belpaese.

Con un livello fiscale di Spagna o Regno Unito, una famiglia italiana risparmierebbe quasi 5.000 euro all’anno

Se nel confronto con la pressione fiscale media dell’UE riferita al 2019 (40,2%) una famiglia italiana avrebbe pagato 1.506 euro in meno di tasse, nella comparazione con il carico fiscale in capo alla Germania, invece, avrebbe risparmiato 548 euro, con quella dei Paesi Bassi il vantaggio sarebbe stato di 2.123 euro, con il Regno Unito e la Spagna avrebbe addirittura potuto beneficiare di una sforbiciata pari a 4.930 euro. Sempre tra i grandi paesi d’Europa, spicca il risultato che emerge dal raffronto con la Francia. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale di Parigi (47,3%), la famiglia media italiana pagherebbe 3.355 euro di tasse in più e addirittura 3.561 euro se il confronto venisse effettuato con la Danimarca, che è il paese con la pressione fiscale più alta di tutta Europa (47,6%).tasse

Rendere omogeneo il prelievo fiscale tra diverse fonti di reddito

Sempre in tema di riforma fiscale emerge anche la necessità di rendere omogeneo il prelevamento su tutti i redditi, superando l’attuale differenziazione. «Attualmente, il reddito generato da un lavoratore dipendente è molto più agevolato dal Fisco rispetto a quello di un pensionato o, ancora, di quello di un lavoratore autonomo – dice Enrico Zanetti, commercialista ex viceministro al Mef -. Non è ulteriormente tollerabile che, a fronte di un medesimo livello di reddito, ci siano ben tre diversi trattamenti fiscali, con i lavoratori autonomi decisamente penalizzati rispetto ad un lavoratore dipendente». Lavoratori autonomi che hanno minori agevolazioni e detrazioni, oltre che un’inesistente garanzia di reddito in caso di riduzione dell’attività, come è avvenuto quest’anno a causa della pandemia da Coronavirus: con le tasse pagate da imprese e contribuenti, ai dipendenti è stata assicurata una generosa cassa integrazione, mentre ai lavoratori autonomi è stata erogata una misera elemosina di circa 2.400 euro, pari a soli due-tre mesi di cassa integrazione.

Zanetti commenta anche le ipotesi di riforma fiscale: «parlare di adozione di un sistema fiscale di tipo tedesco ha poca rilevanza, visto che la progressività del prelievo che questo sistema assicura si differenzia poco da quello vigente italiano. Il problema rimane la continua attenzione da parte del governo verso i redditi medio bassi, fino a 35-40.000 euro lordi annui, che sono già largamente premiati con esenzioni e bonus vari. Il vero problema è per i percettori di redditi superiori, perché quel 15% circa di dichiaranti redditi superiori ai 50.000 euro lordi annui sopportano oltre il 50% per peso fiscale complessivo. Serve urgentemente un riequilibrio per evitare di disincentivare la crescita professionale e reddituale delle persone».

Sarebbe utile dirottare in tutto o in parte quella montagna da 10 miliardi attualmente impegnata per garantire il reddito di cittadinanza ad una profonda e strutturale rivisitazione del sistema fiscale, alleggerendo il carico per chi, fino ad oggi, ha visto solo le briciole del taglio delle tasse, mentre sopporta il carico fiscale maggiore senza avere in cambio servizi di quantità e qualità adeguati.

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