Aiuti Covid-19 alle imprese: poco meno del 50% del totale stanziato è stato accreditato

Secondo la Cgia prosegue con troppa lentezza l’operazione di sostegno finanziario all’economia produttiva delle Pmi.

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Bilanci delle banche Ritardi di pagamento Panetta Liquidazioni ex dipendenti pubblici tassi d'interesse

Anche nel 2021 gli aiuti economici alle imprese e alle professioni per fronteggiare l’emergenza pandemica arrivano troppo lentamente: dei 64,7 miliardi di euro di aiuti Covid-19 diretti messi a disposizione dai governi BisConte e Draghi alle attività economiche, l’Ufficio studi della Cgia stima che poco meno del 50% non sia ancora stato accreditato, poiché sono risorse in gran parte previste con la legge di Bilancio 2021 che stenta a decollare.

Dei 64,7 miliardi solo 22,8 miliardi sono le risorse erogate a fondo perduto (pari al 35,2% del totale). Se rapportati ai circa 350 miliardi di euro di contrazione del fatturato registrata dalle aziende italiane nel 2020, questi 64,7 miliardicopronosolo il 18,5% dei mancati incassi totali.

È evidente che il Governo Draghi deve accelerare non solo sul fronte delle vaccinazioni, ma anche sulla velocità di erogazione delle misure a sostegno delle micro imprese e dei lavoratori autonomi. Il prossimo decretoSostegni Bis” sarà un banco di prova importante. Non solo perché la dimensione economica dovrà essere decisamente più consistente delle misure approvate precedentemente – dovrebbe aggirarsi sui 40 miliardi di euro -, ma anche perché dovranno arrivare nel conto corrente degli imprenditori in tempi rapidissimi.

Dei 35,5 miliardi di euro di aiuti Covid-19 fino ad ora previsti per l’anno in corso, 6,5 consentiranno la decontribuzione Inps per le nuove assunzioni e altri 6,3 verranno erogati come credito di imposta per gli investimenti. A questi vanno aggiunti i 2,5 miliardi di decontribuzione Inps in capo alle partite Iva che l’anno scorso hanno perso oltre un terzo di fatturato.

Di questi 15,3 miliardi di euro (pari al 43% del totale aiuti riferiti al 2021) difficilmente potranno essere appannaggio delle micro imprese e dei lavoratori autonomi che sono state le realtà più colpite dalla crisi. In primo luogo, perché in questo momento non hanno certo la necessità di assumere; in secondo luogo perché non hanno sicuramente la liquidità per attivare nuovi investimenti; in terzo luogo, a causa dell’assenza del decreto del ministero del Lavoro che doveva essere approvato entro i primi giorni dello scorso mese di marzo, non possono ancora beneficiare dello sconto contributivo Inps.

In altre parole, sottolinea la Cgia, il principale problema non sono le chiusure imposte per decreto dal Governo, visto che attualmente in tutti gli altri principali paesi europei le misure di confinamento sono più stringenti di quelle italiane, ma gli aiuti Covid-19 in denaro, che in Italia sono arrivati in misura insufficiente e con grave ritardo. Altrove, invece, sono stati erogati tempestivamente e con dimensioni molto più importanti.  

Mettere in salvo le micro e piccole imprese italiane vuol dire salvaguardare una fetta importante dell’economia del Paese. I numeri sono eloquenti: al netto dei dipendenti del pubblico impiego, le attività con meno di 20 addetti costituiscono il 98% delle imprese presenti in Italia e danno lavoro alla maggioranza degli italiani, vale a dire al 54,6% degli occupati. Inoltre, queste micro realtà producono il 37% del valore aggiunto nazionale annuo, record assoluto nell’Unione europea.

L’Italia è una realtà con un’economia che si regge su imprese di piccolissima dimensione, ma con risultati economici/occupazionali da giganti, ma la competitività del Paese risente soprattutto dell’assenza delle grandi imprese. Da molti decenni, queste ultime sono scomparse, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole realtà produttive presenti in Italia, ma a causa dell’incapacità dei grandi protagonisti, prevalentemente di natura pubblica, di reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione e del mercato.

Sino al 1985, l’Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell’alluminio, nell’informatica e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini, etc.), l’economia del Paese ruotava attorno a questi comparti. A distanza di oltre 35 anni, invece, si è perso terreno e posizioni di vertice in quasi tutti questi settori. E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma a seguito di una selezione che le ha relegate fuori mercato, spesso per scelte di cattiva politica.

Alla luce di queste specificità, l’ufficio studi della Cgia chiede con forza che si torni a guardare con maggiore attenzione al mondo delle imprese, in particolar modo alle piccole e alle micro, visto che, ad esempio, gli effetti della pandemia si stanno abbattendo con violenza inaudita soprattutto su quelle del terziario e dei servizi che se non aiutate adeguatamente rischiano di chiudere definitivamente. 

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