Pasta: a fine 2021 addio all’etichettatura alimentare italiana

Allarme di Coldiretti per l’entrata in vigore del regolamento europeo 2018/775 sull’origine dell’ingrediente primario. 

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Addio alla pasta 100% italiana con la scadenza dal prossimo 31 dicembre 2021 dell’obbligo di etichettatura dell’origine del grano utilizzato, con grave danno per quei consumatori che hanno preso d’assalto penne e spaghetti certificati italiani, con un aumento delle vendite del 29% nello scorso anno. A denunciarlo è il presidentedella Coldiretti Ettore Prandini in occasione della Giornata Mondiale della Pasta che si celebra il 25 ottobre in tutto il mondo.

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L’obbligo dell’etichettatura di origine del grano impiegato fortemente voluta dalla Coldiretti è scattato il 14 febbraio 2018. Il decreto prevede che le confezioni di pasta secca (così come per riso, passata di pomodoro, latte uht e altri prodotti) prodotte in Italia debbano indicare il nome del Paese nel quale il grano viene coltivato e quello di molitura; se proviene o è stato molito in più paesi possono essere utilizzate, a seconda dei casi, le seguenti diciture: paesi Ue, paesi Non Ue, paesi Ue e Non Ue. Inoltre, se il grano duro è coltivato almeno per il 50% in un solo Paese, come ad esempio l’Italia, si può usare la dicitura: “Italia e altri Paesi Ue e/o non Ue”.

Con l’entrata in vigore del regolamento europeo 2018/775 sull’origine dell’ingrediente primario ci sarà una norma decisamente meno stringente, in quanto basterà indicare in etichetta solo l’origine del prodotto principale.

La norma italiana ha portato gli acquisti di pasta con 100% grano italiano a crescere ad un ritmo di quasi 2 volte e mezzo superiore a quello medio della pasta secca, spingendo le principali industrie agroalimentari a promuovere delle linee produttive con l’utilizzo di cereale interamente prodotto sul territorio nazionale, attivando anche di contratti di filiera dal campo alla trasformazione industriale di successo, con vantaggi per tutti i suoi componenti.

Una tendenza su cui rischia però ora di scatenarsi una tempesta perfetta, con la scadenza dell’obbligo dell’originein etichetta che si aggiunge al caro prezzi determinato dagli aumenti delle quotazioni internazionali del grano, legati al dimezzamento dei raccolti in Canada. Il paese nordamericano è il principale produttore mondiale e fornitore di un’Italia che è costretta oggi ad importare circa il 40% del grano di cui ha bisogno ed è dunque particolarmente dipendente dalle fluttuazioni e dalle speculazioni sui mercati. Il tutto nonostante in Canada sia consentito l’utilizzo del glifosato in preraccolta, modalità vietata in Italia.

Per recuperare sovranità alimentare e garantire la disponibilità del grano e degli altri prodotti agricoli – sottolinea la Coldiretti – occorre lavorare per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione, come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali.

Il grano italiano viene pagato al momento circa il 20% in meno rispetto a quello importato nonostante le maggiori garanzie di sicurezza e qualità, mentre i produttori italiani si trovano peraltro a fronteggiare l’aumentoesponenziale dei costi di produzione legati all’aumento senza fine dei mezzi tecnici utili alla coltivazione dal gasolio ai concimi. Il risultato è che quest’anno i costi per le semine sono letteralmente raddoppiati.

L’Italia – secondo Coldiretti – è il secondo produttore mondiale con un quantitativo di 3,85 milioni di tonnellate ma è anche il principale importatore di grano perché molte industrie anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale hanno preferito speculare sul mercato internazionale. Genera una filiera che conta 120 imprese, oltre 10.000 addetti e quasi 200.000 aziende agricole italiane impegnate a fornire grano duro di altissima qualità.

No solo: nel corso del tempo sono aumentati esponenzialmente anche i formati della pasta che sono ormai arrivati a quota 300, mentre alle varietà tradizionali si sono aggiunte quelle fatte con l’integrale, il senza glutine, quelle con farine alternative e legumi, la riscoperta di grani antichi, riportando nel piatto il Senatore Cappelli, la Timilia, il Saragolla e altre varietà che hanno fatto la storia del Paese a tavola. E degli oltre 20 miliardi di valore della produzione di pasta nel mondo circa un quarto è realizzato in Italia, con ampi margini di crescita, visto che già orail 62% della produzione nazionale finisce all’estero, per un valore di 2,9 miliardi, secondo una proiezione sul 2021 della Coldiretti su dati Istat, con un aumento del 7% rispetto al periodo pre Covid.

Quanto ai consumi, l’Italia resta il paese con il più elevato utilizzo di pasta per un quantitativo di 23,5 chilogrammi a testa contro i 17 chili della Tunisia, seconda in questa classifica seguita da Venezuela (15 kg), Grecia (12 kg), Cile (9,4 kg), Stati Uniti (8,8 kg), Argentina e Turchia a pari merito (8,7 kg).

Nonostante l’arrivo del nuovo regolamento europeo, i pastai dell’Unione italiana food confermano il loro impegno a favore della trasparenza e della valorizzazione del prodotto italiano. «Gli italiani continueranno a trovare nelle confezioni le informazioni sull’origine della materia prima. A prescindere da qualunque quadro normativo in materia, non cambierà la nostra trasparenza nel far sapere al consumatore da dove arriva il grano utilizzato per fare la pasta – afferma Riccardo Felicetti, presidente dei Pastai Uif -. Le informazioni che i consumatori italiani richiedono saranno quindi ancora ben presenti».

Ecco come la graffiante matita di Domenico La Cava interpreta la situazione.pasta

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