Ennesimo scandalo del Bengodi Italia: le pensioni baby costano 7 miliardi

Il calcolo della Cgia di Mestre a trent'anni dall'abrogazione. Costano ai contribuenti quanto il reddito di cittadinanza e quasi 2 miliardi in più di “quota 100”. Non più rinviabile una salutare sforbiciata all’assistenzialismo di Stato.

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Tredicesime garanzie pubbliche

Davvero pare non esserci limite al Bengodi Italia, dove sono più i cittadini assistiti dallo Stato che quelli che producono ogni giorno, lavorando da dipendenti o intraprendendo da autonomi: oltre al reddito di cittadinanza e a “quota 100”, nell’elenco degli sprechi di Stato ci sono pure le cosiddettepensioni baby”, inventate qualche decennio fa che permettevano di andare in pensione con 15 anni e sei mesi di servizio nel pubblico, con numerose facilitazioni per le donne con carichi di famiglia.

Secondo la Cgia di Mestre, molti esperti sostengono che le cosiddette “pensioni babycostino alle casse dello Stato circa 7 miliardi di euro all’anno (pari allo 0,4% del Pil nazionale). Praticamente lo stesso importo previsto quest’anno per il reddito/pensione di cittadinanza di matrice pentastellata e addirittura superiore di quasi 2 miliardi della spesa necessaria nel 2020 per pagare gli assegni pensionistici a coloro che beneficeranno di “quota 100” di foggia leghista. 

L’Ufficio studi della Cgia ha “recuperato” i dati Inps riferiti ai percettori di “pensioni baby” presenti in Italia e li ha confrontati con la dimensione economica del reddito di cittadinanza e di “quota 100”. Due misure, queste ultime, che sono nel mirino dall’Unione Europea. Non è da escludere che Bruxelles chieda di rivederle (sarebbe ora!), pena il pericolo che una parte degli aiuti previsti dal “Next Generation EU” siano negati al belpaese. 

«Il termine “pensioni baby” è ovviamente informale, non ha alcun fondamento legislativo e abbiamo deciso di racchiudere in questa categoria coloro che hanno lasciato il lavoro prima della fine del 1980 – spiega il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo -. In totale sono quasi 562.000 le persone che non timbrano più il cartellino da almeno 40 anni. Di queste, oltre 386.000 sono costituite in massima parte da invalidi o ex dipendenti delle grandi aziende. Se i primi hanno beneficiato di una legislazione che definiva i requisiti in misura molto permissiva, i secondi, a seguito della ristrutturazione industriale avviata nella seconda metà degli anni ’70, hanno usufruito di trattamenti in uscita dal mercato del lavoro molto generosi. Dopodiché, contiamo altri 104.000 ex lavoratori autonomi, oltre la metà proveniente dall’agricoltura, e solo una piccola parte, pari al 10,6% del totale che corrisponde a poco meno di 60.000 unità, è formata, invece, da ex dipendenti pubblici. Ricordo che molti di questi impiegati hanno potuto lasciare definitivamente la scrivania dell’ufficio in età giovanissima, grazie alla legge approvata nel 1973 dal governo allora presieduto da Mariano Rumor».

Sebbene queste 562.000 persone si siano ritirate dal mercato del lavoro prima della fine del 1980, gli effetti economici di queste decisioni politiche si fanno sentire ancora adesso. 

«Le “pensioni baby” sono uno degli esempi più clamorosi di come l’Italia, dopo la crescita registrata nei primi decenni del secondo dopoguerra, abbia successivamente abbandonato l’idea di fondare il proprio futuro sulla solidarietà intergenerazionale – commenta il segretario della Cgia, Renato Mason -. In materia previdenziale, ad esempio, fino agli inizi degli anni ’90 abbiamo scambiato il benessere raggiunto in diritto acquisito, scaricando i costi sulle nuove generazioni. I giovani di oggi spesso lavorano con contratti a termine, percependo buste paga molto leggere. Nonostante ciò, sono chiamati a dare il loro contributo per coprire gli assegni generosi versati alle vecchie generazioni andate in quiescenza con il sistema retributivo, mentre la propria pensione, strettamente legata ai contributi versati, quasi certamente avrà dimensioni economiche molto contenute». 

Tra i pensionati baby sono i dipendenti pubblici ad aver lasciato il posto di lavoro in età più giovane (41,9 anni), mentre nella gestione privata l’età media della decorrenza della pensione è scattata dopo (42,7 anni). In entrambi i casi, comunque, l’abbandono definitivo del posto di lavoro è avvenuto praticamente con 20 anni di età in meno rispetto a chi, oggi, usufruisce di “quota 100”. Attualmente, le persone che sono andate in quiescenza prima del 31 dicembre 1980 hanno un’età media di 87,6 anni. 

Se il confronto invece è fatto tra maschi e femmine, registriamo che quest’ultime sono in netta maggioranza. Tra i 562.000 pensionati baby presenti in Italia, ben 446.000 sono donne (pari al 79,4% del totale) e “solo” 115.840 sono uomini (20,6% del totale). In termini di età anagrafica, però, a lasciare prima il lavoro è stato il sesso forte con una media di 40,6 anni, contro i 43,2 anni delle donne. Infine, sia per i maschi sia per le femmine l’età media in cui hanno percepito il primo assegno pensionistico è stata più bassa tra gli occupati nel pubblico che nel privato: mediamente di 6 mesi in entrambi i casi.

Particolarmente favorevoli i requisiti per accedere alle “pensioni baby” per gli ex dipendenti del pubblico impiego a partire dal 1973 fino ai primi anni ’90, quando la riforma Amato del 1992 e la successiva riforma Dini del 1996 posero fine a questo privilegio. In questo ventennio di Bengodi pensionistico, nel pieno del regime retributivo, sono stati riconosciuti i requisiti per il pensionamento alle impiegate pubbliche con figli dopo 14 anni, sei mesi e un giorno, mentre per gli statali uomini era possibile lasciare il servizio dopo 19 anni e mezzo e per i lavoratori degli enti locali dopo 25 anni.

Qualche anno fa, fece scalpore il caso della ex collaboratrice scolastica friulana che riuscì ad andare in pensione alla tenera età di 29 anni con soli 14 ani e 6 mesi di contributi pensionistici, che all’età di 64 anni aveva incassato dall’Inps oltre 200.000 euro di pensioni, un importo decisamente spropositato rispetto ai contributi versati.

Non c’è nulla da stupirsi, dunque, se nello scacchiere europeo l’Italia, anche al netto delle uscite assistenziali, sia da anni tra i paesi che spendono di più per la previdenza, sacrificando altri settori come quello dell’istruzione, dove si è tra le realtà che in Europa investono meno.

Sarebbe ora che si provvedesse ad un riassetto del sistema assistenziale, tagliando considerevolmente gli sprechi più recenti, ad iniziare dal reddito di cittadinanza (troppo spesso protagonista di episodi truffaldini) e da “quota 100” per assicurare un reale sostegno alle famiglie con figli (anche per invertire la tendenza al calo demografico) e per supportare chi, con il sistema pensionistico contributivo, in presenza di carriere lavorative discontinue, si troverà con pensioni da fame, talvolta perfino inferiori a quella sociale.

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