Nel 2019 le spese dei comuni impiegate per i servizi generali, amministrazione e gestione hanno toccato i 15,9 miliardi di euro. In buona sostanza, queste uscite stimano le risorse impiegate dalle amministrazioni comunali per ottemperare gli adempimenti della burocrazia che quotidianamente sono chiamate ad affrontare.
Se si calcola l’incidenza di questo importo sulla spesa corrente totale in capo ai comuni (al netto del servizio rifiuti), essa ammonta mediamente al 35,3%, ma sale al 40,5% per le amministrazioni tra i 5.000 e i 10.000 abitanti per attestarsi al 45,7% per quelli fino a 5.000 abitanti. Per le altre classi dimensionali l’incidenza scende. Tra i 10.000 e i 20.000 abitanti si raggiunge il 37,6%, diminuisce per quelle da 20.000 a 60.000 al 36,2% per fermarsi al 28,6% per le realtà amministrative comunali con più di 60.000 abitanti.
«I dati elaborati dall’Ufficio Studi della CGIA – afferma Francesco Pinto, segretario generale ASMEL, l’Associazione che rappresenta oltre 3.500 comuni di tutt’Italia – confermano che il bigottismo normativo affligge non solo il settore privato ma anche l’operatività della pubblica amministrazione locale costretta a fronteggiare disposizioni, procedure e adempimenti, che si rivelano molto spesso inutili o addirittura controproducenti. Una complessità amministrativa che grava maggiormente sulle Amministrazioni comunali più piccole, meno strutturate sul piano organizzativo e con meno addetti. Semplificare le norme è il primo imperativo per far funzionare le realtà locali e per far ripartire il Paese».
Lo studio è stato commissionato all’Ufficio studi della CGIA da ASMEL che da anni sostiene che il bigottismo normativo è la principale causa dei ritardi nello sviluppo del Paese.
Servizi generali, amministrazione e gestione sono tra voci di spesa che costituiscono un aggregato eterogeneo della burocrazia comunale, che comprende servizi come “gestione economica, finanziaria, programmazione e provveditorato”, “ufficio tecnico”, “gestione delle entrate tributarie e servizi fiscali”, “gestione dei beni demaniali e patrimoniali”, e “risorse umane”. Con buona approssimazione, si può affermare che rappresentano i costi che la macchina amministrativa comunale è obbligata a sostenere per “mantenersi in moto”.
Secondo lo studio della Cgia, nel 2019 i 15,9 miliardi di spesa impattano per il 35,3% sui circa 45 miliardi di euro di spese correnti dei comuni (al netto del servizio rifiuti). Nell’ultimo decennio la dinamica è stata altalenante ma si scorge una moderata tendenza all’aumento, considerato il fatto che nel 2010 era al 34,8%.
Tra il 2010 e il 2019 la quota di spese destinata alla burocrazia è aumentata per tutte le classidemografiche, ad eccezione dei comuni con più di 60.000 abitanti; le più “colpite” dall’aumento del peso della “burocrazia” sono state le classi intermedie, nello specifico tra 5.000 e 20.000 abitanti.
Nei comuni con meno di 5.000 abitanti la quota di spesa corrente destinata ai “servizi generali, amministrazione e gestione” arriva al 45,7%; valori elevati si riscontrano anche nella classe tra 5.000 e 10.000 abitanti (40,5%). I comuni più grandi, invece, manifestano incidenze più contenute.
In termini pro-capite, i comuni più piccoli fanno registrare i valori più elevati (343 euro per abitante), seguiti dai comuni con oltre 60.000 abitanti (277 euro); le spese più contenute si riscontrano nelle classi demografiche intermedie.
A livello territoriale, la quota di risorse assorbite dalla “burocrazia” oscilla dal 28,4% dei comuni lombardial 54,9% delle amministrazioni della Valle d’Aosta; in termini di macroaree geografiche si nota una quota particolarmente elevata nei comuni del Mezzogiorno (nel 2019 pari al 42,5%).
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