I Carnevali tradizionali del Trentino

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Carnevale Valfloriana 1
Carnevale Valfloriana 1Presentate le iniziative organizzate su tutto il territorio

Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo in Trentino è tempo di carnevale, con le manifestazioni storiche che festeggiano le tradizioni di valle e di paese.

Carnevale Ladino della Valle di Fassa – Mascherèda fascèna

Canazei (Penia), giovedì 27 febbraio – martedì 4 marzo 2014

Grop de la Mèscres da Dèlba e Penìa è il nome dell’Associazione che si occupa della valorizzazione e della trasmissione di una delle manifestazioni popolari più antiche e prestigiose delle Alpi: il Carnevale Ladino di Alba e Penìa.

Le maschere guida sono il Laché, il Bufon e i Marascons, seguiti e circondati da maschere o faceres da bel o da burt, che rappresentano il bello ed il brutto, gli aspetti positivi o negativi dell’immaginario collettivo o della fantasia popolare più radicata e specifica del territorio. Le maschere/faceres sono tutte rigorosamente in legno, pezzi unici normalmente ricavate dal cirmolo e dipinte con colori ad olio. Qualche tempo fa solo pochi mascherai erano in grado di produrre con continuità e fantasia le maschere del carnevale ladino, ma negli ultimi anni, grazie alla disponibilità e alla sensibilità di qualche scultore o decoratore/artista locale, la scuola del fare a mano ha ripreso a crescere seguendo i metodi della tradizione e della continuità.

Accanto alle maschere, ai costumi, alle figure nascoste, un ruolo determinante viene offerto dalle mascherèdes, piccoli e burleschi pezzi teatrali di un atto che un gruppetto di attori improvvisati recita per quattro o cinque volte durante l’intero periodo di carnevale. Le recite vengono presentate in lingua ladina, così come tutte le formule rituali appartenenti ai rispettivi ruoli delle maschere guida.

E’ dal 1979 che il carnevale fassano è stato fatto rivivere nella pienezza delle sue tradizioni. Si inizia il giorno 20 gennaio, sagra di S. Sebastiano a Penia. El bufon e el laché, subito dopo pranzo, fanno di corsa il giro dei paesi di Alba e Penia per avvisare, di casa in casa, che alla sera è in programma la rappresentazione della mascherata con le maschere tradizionali e una buona dose di allegria e di musica.

I commedianti, i marascons, e i suonatori di fisarmonica si trovano presso la stube di Mario de la Nonòtes, adiacente la piazza di Penia, e aspettano il ritorno del bufon e del laché. Quando tutti sono pronti, si dà inizio, con una sfilata, al carnevale fassano. Il primo ad entrare in azione è il laché che deve presentare l’intero gruppo, in quanto responsabile di commedianti, maschere e suonatori. Segue la comica entrata del bufon al quale è concesso di prendere in giro la gente, talvolta anche con espressioni un po’ offensive, decantando i pregi e i difetti della persona presa di mira. Finita l’esibizione del bufon entrano in scena i marascons: sono delle maschere simboliche, con tre o quattro cinture di campanacci attorno alla vita, che stanno a rappresentare il legame della gente contadina della Valle di Fassa con gli animali domestici, in primo luogo le mucche. Finita questa esibizione, ha inizio la mascherata; di solito una farsa in cui è messa in risalto l’identità ladino-fassana. Per finire, ecco un nuovo rientro del bufon, cui seguono i marascons e il laché che chiede umilmente perdono se vi sono stati degli errori, ma chiede soprattutto di mettere mano al portafoglio, lasciando intendere che senza ricompensa nessuno, al giorno d’oggi, fa più nulla. Tocca poi ai suonatori che, con le loro fisarmoniche, protraggono la serata fra danze e balli anche fino alle ore piccole.

Il Carnevale ladino si festeggia anche in altri centri della Val di Fassa, e ogni villaggio ha le sue peculiarità o figure caratteristiche. Ad esempio a Moena ritroviamo gli Arlèchins (di solito due), con un cappello a punta, campanacci, volto coperto da un velo bianco e pantaloni colorati, che rincorrono i bambini spaventandoli con un frustino, e i Lonc, altissime maschere che nascondono uomini coi trampoli coperti da un lenzuolo bianco e si fanno vedere all’imbrunire, spaventando la gente. Pozza, Vigo di Fassa e Soraga si distinguono invece per l’om dal bosch (l’uomo del bosco, figura spaventosa e selvaggia) e il coscrit te ceston, che rappresenta una donna che porta il figlio diciottenne alla visita di leva nella gerla, perché questo ha paura.

 

Carnevale tradizionale di Valfloriana

Sabato 1 marzo 2014

Il Carnevale tradizionale di Valfloriana, noto anche come “Carneval dei Matòci” è uno dei pochi carnevali arcaici sopravvissuti al processo di omologazione che ha portato la maggior parte delle manifestazioni di questo tipo ad adeguarsi a modelli spettacolari del tutto estranei alla tradizione e cultura locale. Il Carnevale tradizionale di Valfloriana ripropone l’antica usanza dei cortei nuziali. I costumi e le bellissime maschere in legno dette “Facère” sono esempi pregiati di un artigianato artistico che rappresenta un patrimonio culturale che merita di essere valorizzato.

La “mascherada” che si tiene sempre al sabato grasso e che percorre tutte le frazioni di Valfloriana, si svolge nell’arco dell’intera giornata e coinvolge tutta la popolazione che partecipa attivamente ai “Contrèsti”, vivaci contradditòri fra i “Matòci” (sono le maschere che aprono il corteo, annunciate dal suono dei “bronzini” e vestite di abiti ricoperti di nastri e merletti con dei copricapi molto personalizzati) e gli spettatori, chiamati in causa dalle battute, vivaci e talvolta salaci, che vengono loro rivolte. Tocca dunque al pubblico riconoscere l’identità dei personaggi messi alla berlina in ogni “mascherada” dai componenti della “Compagnia” che segue i “Matoci”, e in particolar modo dai “ Paiaci” (sono delle maschere mute), autori di pantomime che vengono di volta in volta adattate alla situazione.

Importanti sono anche gli “Arlecchini” che danzano in cerchio al suono delle fisarmoniche, indossando costumi multicolori e molto appariscenti e copricapi a forma di cono, anch’essi decorati con nastri e perline multicolori. Fanno parte del corteo le coppie degli sposi (a ruoli invertiti, con il maschio vestito da sposa e la femmina vestita da sposo) e le maschere chiamate “le bele” che impersonano gli invitati allo sposalizio.        Determinante è il ruolo delle varie associazioni di volontariato che organizzano i ristori nelle varie frazioni con i “magnari de ‘na volta”.

 

Carnevale mocheno – Carnevale dei Bètsche

Martedì 4 marzo 2014

Nella comunità mòchena il carnevale inizia subito dopo l’Epifania e assume significato grazie alle maschere (un tempo si usava semplicemente un velo per coprire il volto), ma soprattutto grazie al ballo che costituiva, in passato, la principale occasione d’incontro tra i giovani della comunità e tra i vari paesi. La continuità e il perdurare di un insieme di gesti, parole, atteggiamenti e azioni contraddistinguono il carnevale che ogni anno il martedì grasso (vòschnto) si svolge a Palù. La rappresentazione del bètscho e della bètscha – le due figure principali, chiamate anche vecchi, vèci – hanno subito nel corso del tempo dei cambiamenti; rimane comunque una grande partecipazione e la consapevolezza soprattutto nei giovani, dell’unicità del rito che ha simbolicamente assunto valori e prospettive nuove, legate all’esistenza e all’identità della piccola comunità.

Le caratteristiche principali del costume del bètscho sono: un copricapo di pelle di capra terminante a due punte ornate da pennacchi e campanellini e un camicione di canapa bianca fermato in vita da un cinturone di cuoio che permette di trattenere una vistosa gobba formata di fieno. Der bètscho e de bètscha hanno il viso interamente coperto di nero e portano rispettivamente in mano un bastone e uno scopino. De bètscha è vestita semplicemente da donna, con un cappellino in testa. Der òiartroger (il raccoglitore delle uova) indossa un vestito festivo scuro con qualche ornamento; sulle spalle porta una cassetta, kraks, dove vengono riposte le uova. Viene chiamato anche teit, ossia padrino.

Il martedì grasso, nelle ore antimeridiane, i tre personaggi iniziano la vestizione nel maso più alto del paese e subito cominciano il loro percorso che li porta di maso in maso a “seminare” fertilità e abbondanza. I due tendono a progredire di corsa e con grandi balzi, mentre il terzo gli segue a distanza camminando lungo i più comodi sentieri e raccogliendo dalle famiglie le offerte in uova. Un momento importante del rituale è la morte simulata del bètscho e della bètscha. Con il bètscho a terra, la bètscha procede alla lettura del testamento. Questo si ripete per la morte della bètscha. Nel testamento sono chiamati in causa i coscritti e le coscritte di tutto il paese; de bètsche, i vecchi, assumono quindi il ruolo di genitori di tutti i ragazzi della comunità. La lettura del testamento suscita grande attenzione e ilarità, perché avviene una sorta di gioco di inversione dei ruoli, dove il patrimonio della famiglia della ragazza viene lasciato al ragazzo e viceversa, sovvertendo le tradizionali regole di successione. Subito dopo, vengono offerte le torte preparate dalle ragazze della località, presso la quale la sera precedente sono state anche raccolte informazioni per la stesura del testamento. Il corteo carnevalesco termina al tramonto con il rogo del fieno contenuto nella gobba del bètscho e delle carte dei testamenti. Tutta la comunità festosa si reca quindi in un prato chiamato Schèrzerbis, dove si brucia un enorme falò (vòschn) preparato precedentemente.

 

Carnevale di Grauno

Martedì 4 marzo 2014

Pur con notevoli variazioni da paese a paese, in Val di Cembra i giorni della settimana del Carnevale erano un tempo denominati nel seguente modo: la “giobia màta”; il “vèndro sgnocolà”, giornata dedicata agli gnocchi (di farina, pane o patate che siano, conditi per l’occasione con abbondante “botér”); il “sabo sföiadàr”, uno dei pochi giorni dell’anno in cui le massaie preparavano la pregiata “pasta all’uovo” e, infine, i tre giorni “grassi”: la “domenega gràsa”, il “lundi gràs” e il “mardi gràs”, fino al “mercol da le cendro” che segna l’inizio della Quaresima.

Carnevale di Grauno 1E’ probabile che l’origine del carnevale di Grauno sia antecedente al periodo romano e, probabilmente, retaggio degli antichi culti del popolo dei Reti che, nell’età del ferro e fino alla romanizzazione, viveva organizzato in tribù nell’attuale territorio regionale. Una di queste tribù era quella dei “Cimbri”. Se Grauno esistesse in quelle epoche antiche non è dato di sapere, ma quegli antichi culti dei grandi fuochi, che onoravano la Madre terra e le divinità pagane per propiziare i futuri raccolti della bella stagione, si sono tramandati nei secoli.

Il periodo del Carnevale, per Grauno, inizia tradizionalmente alla mezzanotte dell’Epifania quando i coscritti dell’annata si recano nel bosco, tagliano alcuni fusti di pino, li trascinano in paese e li legano alle colonne delle quattro fontane. Sarebbero proprio loro i responsabili dell’organizzazione del Carnevale, ma la situazione demografica ha a volte impedito questa regola tradizionale.

La fase centrale del Carnevale si svolge a partire dal sabato precedente il martedì grasso, quando un folto gruppo di persone armate degli strumenti del bosco si reca sul monte per abbattere la pianta già indicata in antico dal “saltàr”, oggi guardia forestale. Il maestoso pino viene trasportato intero e sfrondato in prossimità del paese dove rimarrà fino al Martedì Grasso. Un tempo, con il ricavato della vendita del pino di carnevale era possibile pagare il vino al suonatore e a tutti i partecipanti, oltre a tutte le altre spese per il carnevale, compresa la trasferta a Trento dei coscritti per la visita di leva.

Nel giorno del Martedì Grasso, già prima del levar del sole tutti sono in fermento, mentre si approntano “soghe”, catene, “rampìni” ed altro per il trascinamento del pino. A metà mattina il pino rituale, “parcheggiato” in prossimità del paese, viene trascinato con due grosse funi dalla “pontàra” fin sulla piazza dove ad attenderlo ci sono tutti i “grauneri”.

Fin dall’antico a Grauno, per garantire la partecipazione alla tradizione, l’ultimo giorno di carnevale è vietata qualsiasi forma di lavoro: un tempo chi veniva colto in flagrante veniva processato e condannato da una specie di improvvisata gendarmeria locale che organizzava in grande stile l’arresto e istituiva un tribunale per il processo. Molti spettatori del “Carnevale” sono però anche forestieri, i quali un tempo, per partecipare a questa tradizione prettamente “gràunera”, erano obbligati a pagare una sorta di gabella, e a tale scopo raggiungevano il paese muniti di una damigiana di vino.

C’è attesa soprattutto per la “comèdia”, preparata in gran segretezza nei giorni precedenti. Il pubblico si sistema un po’ dovunque, utilizzando anche i poggioli e le finestre prospicienti la piazza, al cospetto dell’albero disteso sulla piazza. La recita degli improvvisati attori si conclude sempre allo stesso modo, e lo sposo, con un pezzo di “dàŝa” immerso nel vin cotto, battezza il “Pin”. Mentre ricorre l’invito pubblico a bere “sia òmeni che fémene” perché “doman l’è le Cenere”.

Le vie del paese risuonano di suoni e di canti, e il risplendere di fiaccole esalta ancor più i variopinti cappelli dei coscritti che si dirigono alla “Busa”, per dare avvio al secolare falò che illumina il paese e la valle e che è da sempre, con le sue faville trasportate dal vento, oracolo sulle messi future, sull’abbondanza o sulla ristrettezza, sul divenire di un anno di vita di questa comunità.

Alla “Busa” sotto le Poze è già stata approntata la grande buca creata in un dosso costituito quasi interamente da terriccio nero e carboni, frutto di secoli e secoli di immutabile rito. Si dice che un tempo la buca, oggi di 3 metri circa, sia stata di 7 metri, e che sul fondo giaccia una lastra di porfido dove poggiava fin dal medioevo il grande pino di carnevale.

Tra un tiro e l’altro, un raddrizzamento e qualche momento di paura ed emozione, alla fine il pino si erge ritto ed imponente al cospetto dell’intera valle, e sorvegliato dall’intero paese. E’ giunta l’ora dell’addobbo che, se un tempo consisteva esclusivamente in fasci di “pàia e vincèi” richiesti nel paese e “tràti gio da i pontesèi”, attualmente è arricchito da covoni, “pèlez”, e fasci di rami. L’operazione non è facile: è necessario passare di ramo in ramo, salire fino alla cima, assicurare tutto nel miglior modo, così che lo spettacolo della sera riesca alla perfezione.

Ed al giungere del manto della notte ecco l’Ave Maria, il corteo, i canti, i coscritti e gli sposi, ed infine il grande falò: nell’allegro rumore delle “bolìfe”, mentre i presenti leggono segni di profezia per l’anno che verrà, ancora una volta si compie il ciclo immutato del “Carnevàl de Graun”.

Ecco dunque nel grande mosaico della storia del Carnevale europeo una piccola ma preziosa tessera, “Grauno”, che con tenacia guarda ancora al futuro per riproporre, attraverso una secolare usanza, le radici e le valenze di una orgogliosa comunità di montagna.