Il Quartetto Sacconi alla Stagione cameristica della Società Filarmonica di Trento

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15.Sacconi 11  Clive Barda 1Appuntamento il 13 novembre con un programma dedicato a Haydn, Beethoven e Britten

Sul palco della Società Filarmonica di Trento, mercoledì 13 (ore 20.45) arriva il Quartetto Sacconi composto da quattro giovani musicisti inglesi che devono il loro nome d’arte a Simone Ferdinando Sacconi (Roma 1895 – Point Lookout 1973), uno dei più illustri liutai e restauratori italiani.

Tutta la sua vita è stata dedicata allo studio delle opere di Antonio Stradivari; una ricerca confluita nel libro “I ‘segreti’ di Stradivari” tradotto in moltissime lingue. Quando nel 2001 quattro giovani studenti al Royal College of Music decidevano di intraprendere la carriera professionistica fondando un quartetto, la scelta del nome cadde all’unanimità sul grande liutaio italiano. Un nome che ha portato fortuna al gruppo, salutato subito con ammirazione dalla critica per l’equilibrato assieme, l’approccio fresco e creativo alle opere sia classiche che romantiche.

Apre il programma della serata il Quartetto n. 32 op. 20 n. 2 in Do magg. Hob: III:32 di Joseph Haydn. Nel tragitto di affermazione del quartetto “classico” Franz Joseph Hadyn seppe coniare una forma ideale, facendo interagire le grammatiche statiche della scrittura omofonica, prediletta dallo stile galante, e polifonica, di provenienza accademica, con il principio dinamico del moderno sonatismo nonché con l’emancipazione del linguaggio strumentale, nella democratica intenzione di un camerismo basato sulla parità di ruoli e diritti. Il percorso haydniano – forte di oltre 70 numeri – raggiunge una sua prima compiutezza proprio con la silloge dell’op. 20, i “Quartetti del sole”, “illuminati” dalla razionale e nello stesso tempo emotiva catalogazione dei nuclei fondanti. Così nel primo movimento l’impianto è decisamente melodico, di una cantabilità vagamente dolente, oscurata dalle trasposizioni tonali di provenienza sonatistica. “Cantabile” pure l’Adagio, dove l’intitolazione Capriccio, nell’ottica rinascimentale, riferisce di una costruzione a più voci con finalità tuttavia drammatiche attribuite dal “patetico” tono di do minore. Polifonia pura si ritrova nel finale, vera e propria fuga a quattro soggetti, luogo di sperimentazione per la pari dignità degli archi nonché per una scattante motricità, simbolo del tempo nuovo.

A seguire, il Quartetto n. 2 in do magg. di Benjamin Britten composto nel 1945, che riassume la cifra estetica del compositore inglese, in una partitura che sintetizza l’amore per la propria terra quanto l’appartenenza a una più vasta e universale comunità artistica, in cui ritagliarsi uno spazio autonomo ed originale. Non è così difficile immaginarvi un atto creativo che alla radice haydniana e dunque tedesca della forma – una copia dei quartetti di Haydn era sempre sul tavolo del compositore – sposasse preludi secenteschi, nello stesso anno, il 1945, in cui l’Inghilterra ed il mondo intero celebravano il bicentenario dalla nascita di Henry Purcell. Così, a fronte di una scrittura moderna, il primo movimento del quartetto non sfugge alla suggestione della forma sonata, affiancando i sintomatici temi contrastanti mentre il secondo si colora di screziature notturne. Entrambi però non durano più che dieci minuti poiché il cuore dell’opera batte all’unisono con l’ultimo tempo: una ciaccona costruita su un tema di nove battute cui seguono 21 variazioni. Evidente l’omaggio al barocco e a Purcell (chi non conosce la celebre Ciaccona in sol minore per archi?), ma, naturalmente, il trattamento di Britten della forma variativa non indulge ad alcun citazionismo, esplorando invece contesti ritmico-timbrici continuamente cangianti.

Infine il maestro di ogni rivoluzione, Ludwig van Beethoven, chiude il programma con il numero centrale dell’ultima, visionaria e profetica, silloge riservata quartetto d’archi, composta tra il 1825 e il 1826, e destinata ad interpretare il testamento musicale del compositore. Il Quartetto op. 132 sembra voler raccogliere una ultima prodigiosa volontà di sintesi fra tradizione e modernità, rileggendo l’eterno dibattito tra arte e artificio, fra tecnica ed ispirazione: i sintomi già sono nel misterioso nucleo iniziale di quattro note lunghe corrispondenti al nome Bach, cui però segue un Allegro profondamente contrastato, già segnato dalla romantica componente autobiografica, esplicita nel centro di gravità della composizione, costituito dal tempo lento. “Molto adagio”, “Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito” recita la didascalia, aggiungendo “in modo lidico”: la sofferenza individuale si sublima in un gesto universale di elevazione spirituale, nell’orbita della mistica antica modalità, ma alla luce di una profonda umanità, risolvendo quindi nella “voce dell’anima del nuovo secolo”, così come vuole l’esegesi riservata al movimento conclusivo.