Unione Europea, in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi in cambio di poco o nulla

0
485
Unione europea bandiere ue
Secondo lo studio del Centro studi impresa lavoro dal 2000 al 2014 il paese ha contribuito al budget europeo per 213 miliardi di euro ricevendone poco più di 141

 

Unione europea bandiere ueIn un momento in cui il livello della tensione tra istituzioni italiane e quelle europee sembra essere tornato ai massimi storici di qualche anno fa, i risultati di una ricerca effettuata dal Centro studi “ImpresaLavoro” presieduto dall’imprenditore friulano Massimo Blasoni evidenzia come – dal 2000 ad oggi – l’Italia resti comunque un contributore netto dell’Unione Europea. Ciò significa che versiamo per il budget della Ue più risorse di quante poi ci vengono accreditate dai diversi programmi finanziati dall’Europa, senza contare poi i fondi che vengono restituiti all’Europa a causa dell’incapacità di programmare la spesa dei fondi europei da parte di ampi settori dell’amministrazione statale e locale. 

Il saldo negativo con l’Europa non è, per l’Italia, una novità. L’analisi dei dati, però, dimostra una tendenza preoccupante. Se il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro, tra gli oltre 11 versati nelle casse di Bruxelles e i quasi 10 tornati nei confini della nostra economia, questa forbice si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata). In totale, tra il 2000 e il 2014, l’Italia ha contribuito al budget europeo per una somma superiore ai 213 miliardi di euro, ottenendo erogazioni per poco più di 141.

Di questi 213 miliardi, secondo i conti della Ragioneria generale dello Stato, poco più di 22 (in media, circa 1,4 all’anno) sono quelli catalogati come “risorse proprie tradizionali”, cioè i dazi versati per l’esistenza di uno spazio doganale unificato; mentre quasi 45 (poco meno di 3 all’anno) sono quelli legati all’imposta sul valore aggiunto. Tutto il resto – circa 146 miliardi, poco meno di 10 all’anno – sono contabilizzati sotto la voce calcolata in base al reddito nazionale lordo. 

Tra le risorse finanziarie che l’Italia riesce a recuperare, la fetta più sostanziosa riguarda i 74 miliardi del FEAGA (Fondo Europeo Agricolo di Garanzia) che rappresentano più della metà dei 141 miliardi arrivati in Italia da Bruxelles negli ultimi quindici anni. Significativi anche i 35,7 miliardi del Fondo europeo di sviluppo regionale e i 15,3 miliardi del Fondo sociale europeo destinato agli interventi di sviluppo socio-economico. Il 61% delle risorse complessivamente trasferite in questi anni è insomma riferito ai settori dell’agricoltura e della pesca. Mentre il 25% è ad appannaggio del Fondo europeo di sviluppo regionale. 

Secondo Simone Bressan, direttore del Centro studi “ImpresaLavoro”, «è certamente vero che i flussi finanziari non sono tutto e che la mera aritmetica tra quanto versiamo a Bruxelles e quanto riceviamo dall’Europa non può consegnare la cifra della nostra partecipazione al programma di integrazione europeo. Però quei numeri dicono comunque molto sul ruolo che abbiamo e su quello che dovremmo avere. Sediamo nei consessi europei con la timidezza dello scolaro che non ha fatto i compiti per casa quando invece dell’Unione siamo un pilastro irrinunciabile, oltre che un paese fondatore».

«L’andamento della nostra economia nei 14 anni dell’euro  – sottolinea Bressan – è stato sempre peggiore della media dei nostri partner continentali, eppure il nostro paese non si è sottratto ai suoi compiti. Ha versato nelle casse dell’Unione più di quanto ha ricevuto in cambio, ha partecipato con 58 miliardi a strumenti di stabilità finanziaria di cui non ha usufruito, ha pagato con l’instabilità politica interna e un’endemica debolezza economica la sua partecipazione a mercato e moneta unica. Ci sono stati certamente dei benefici e delle opportunità non colte: le frontiere che cadono, per un paese così votato all’export come il nostro, sono un indubbio vantaggio, così come Euro, BCE e fondi salva-stati hanno consentito all’Italia di ottenere sensibili risparmi sul fronte del costo del nostro ingente debito pubblico. Spazi di manovra – osserva Bressan – che sono stati sfruttati male o dilapidati in un continuo rinvio delle riforme necessarie al paese e in una spesa pubblica che, al netto di annunci e proclami, si fatica a ridimensionare».

Per Bressan «la posizione di contributori netti dovrebbe garantirci autorevolezza nell’ottenere flessibilità in cambio di buone riforme, ma non può in nessun caso diventare un alibi per frenare la modernizzazione del paese. Abbiamo il “total tax rate” sulle imprese più elevato del continente e una pressione fiscale reale vicina al 50%: se dobbiamo battere i pugni in Europa facciamolo per avvicinare la nostra economia a quella dei paesi più dinamici e non per difendere uno status quo che non conviene né all’Europa né tantomeno a noi».

I dati diffusi da “ImpresaLavoro” vengono commentati dal capogruppo alla Camera dei Deputati della Lega Nord, Massimiliano Fedriga, secondo cui «l’analisi numerica su costi e benefici della presenza italiana nella comune casa europea negli ultimi 15 anni è impietosa: cifre che evidenziano un vero e proprio salasso per i cittadini, a fronte di ritorni modesti e comunque settoriali. Ma il fallimento dell’Unione Europea non va letto esclusivamente in questi pur preoccupanti e significativi dati, bensì anche – ribadisce Fedriga – nella totale incapacità di una struttura elefantiaca e sempre più lontana dalla gente di mettere in piedi strutture e servizi – penso ad esempio alla politica estera di sicurezza comune, alla gestione dei flussi migratori e alle politiche del lavoro – per far fronte alle necessità dei popoli anziché di quelle di qualche élite. E lo studio di “ImpresaLavoro” rappresenta in tal senso un chiaro campanello d’allarme sulla pressante urgenza di rifondare l’Europa ripartendo dalle persone, ponendole al centro di un progetto serio, condiviso e responsabile».DareAvere1 defDareAvere2 def2DareAvere3 def