La Rai torna a battere cassa per coprire i propri deficit

L’ente radiotelevisivo italiano non riesce a ridurre i propri, enormi costi di funzionamento, chiedendo ai contribuenti nuove entrate. Il confronto con Mediaset è impietoso: fa consistenti utili con meno della metà dei costi.

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La Rai torna a battere cassa presso l’azionista pubblico, chiedendo nuove risorse per coprire i costi di funzionamento del pachiderma pubblico che continua a navigare in acque finanziariamente poco tranquille, gravata da costi fissi enormi e da un consistente indebitamento netto.

Nel corso della sua audizione alla Commissione bilancio della Camera in vista dell’approvazione definitiva della Finanziaria 2024, il ministro delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha ribadito alla politica, maggioranza e opposizione, che la stella polare dell’azione di governo è la gestione del debito pubblico mostruoso, il terzo per dimensioni a livello globale, che secondo la Banca d’Italia ha superato quota 2.870 miliardi, con la necessità di spendere nel 2024 oltre 100 miliardi solo per coprire gli interessi.

In questo contesto, sarebbe giusto, doveroso, corretto che la politica iniziasse a fare quanto hanno fatto da tempo famiglie e aziende del Belpaese: tagliare, razionalizzare e ridurre la spesa per fare quadrare i propri bilanci. Ad iniziare proprio dalla Rai che continua il vezzo di scialacquare allegramente a spese dei contribuenti per assicurare un servizio pubblico spesso di scarsa qualità, soprattutto meno efficiente se confrontato con i privati.

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Nel corso della sua audizione in Commissione Vigilanza della Rai, l’amministratore delegato Roberto Sergio ha battuto cassa per consentire all’azienda pubblica di fare quadrare il bilancio 2024 che si prospetta difficile, anche per il taglio delle entrate dal canone radiotelevisivo che con la Finanziaria 2024 passa da 90 a 70 euro annui, nonostante il governo Meloni abbia erogato con la fiscalità generale 430 milioni di risorse fresche a compensazione del taglio.

Nonostante il flop di numerosi nuovi programmi e una riorganizzazione dell’azienda a cura del direttore generale Giampaolo Rossi ben lungi dall’ottimale, Sergio ha comunicato che il bilancio 2023 chiuderà con un risultato netto consolidato in pareggio, con l’indebitamento netto che passa da 650 a 560 milioni di euro, con una raccolta pubblicitaria in crescita del 7% rispetto al preventivato.

Il problema della Rai riguarda l’ammontare enorme dei costi fissi rispetto alle entrate, con quelle del canone che ammontano a 1,8 miliardi di euro su un bilancio complessivo di 2,7 miliardi di euro. Per il solo costo del personale – ben 12.000 dipendenti – se ne va più di un miliardo, di cui ben 300 milioni sono assorbiti dai soli giornalisti dell’area informativa televisiva e radiofonica. Altri 70 milioni se ne vanno per la gestione delle sedi sparse sul territorio nazionale, molte delle quali in affitto, cui andrà ad aggiungersi il nuovo centro di produzione di Milano preso in locazione dalla Fondazione Fiera, di cui la Rai è da sempre un ottimo cliente.

Impietoso il confronto con il diretto concorrente privato, Mediaset, simile per copertura informativa, fatturato e numero di reti. A fronte di 2,8 miliardi di giro d’affari, Mediaset porta a casa mediamente 200 milioni di utili ogni anno, il tutto con meno della metà dei dipendenti – 4.800 – che costano circa 350 milioni di euro all’anno.

I vertici di Rai – e della politica tutta, maggioranza e opposizione – dovrebbero chiedersi se si può continuare a tenere in piedi un siffatto carrozzone gestito più con criteri clientelari e con finalità politiche piuttosto che di reale servizio pubblico utile a cittadini ed imprese.

Giorgetti ha più volte ribadito che questa legislatura sarà la stagione delle privatizzazioni: ecco, potrebbe ben iniziare proprio dalla Rai, cedendo i tre canali nazionali sul mercato, mantenendo per le sole finalità di servizio pubblico un canale informativo radiotelevisivo nazionale e regionale, unitamente ad un canale per diffondere contenuti culturali, scientifici e di approfondimento.

Anche altri enti radiotelevisivi europei sono stati oggetto di una sostanziosa cura dimagrante. Perché in Italia non si riesce a fare altrettanto? Il servizio pubblico può sopravvivere anche senza Sanremo e altre amenità similari.

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