Friuli Venezia Giulia, celebrata la ricorrenza dal disastroso terremoto del 1976

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terremoto friuli 1976
terremoto friuli 1976La sfida della ricostruzione a 39 anni di distanza possibile trampolino per l’uscita dalla crisi economica

A 39 anni dal sisma che distrusse mezzo Friuli Venezia Giulia e che causò mille morti, centomila sfollati, 18.000 case distrutte, oltre 75.000 danneggiate, 45 comuni rasi al suolo dalla furia devastatrice e altri 92 danneggiati, i Friulani si chiedono se e come la sfida della ricostruzione vinta possa oggi servire ad aggredire e a far uscire la regione dalle morse di una crisi economica che tarda a mollare la presa.

Tutti sono concordi, anche tra i commentatori e critici più severi, che la la sfida della ricostruzione sia stata ampiamente vinta già da qualche lustro, a differenza di altre zone d’italia dove gli effetti di terremoti ormai storici si trascinano tuttora.

Chi oggi passa per Gemona, Venzone, Osoppo, Majano, Tolmezzo, Tricesimo e tra gli altri paesi nell’epicentro del sisma del 6 maggio 1976 non può non rimanere sorpreso nel vedere tutto “com’era e dov’era”. In alcuni casi la ricostruzione ha decisamente migliorato quello che c’era, con l’implementazione di tecniche ricostruttive antisisma particolarmente efficaci, garanzia contro il ripetersi di nuovi disastri. Mancano ancora dei tasselli: ancora si sta ultimando la ricostruzione del castello di Colloredo di Monte Albano, quello di Ippolito Nievo, oppure quello di Gemona, dove si discute dove collocare i lacunari di Pomponio Amalteo (allievo del Pordenone) salvati dalla furia distruttrice dell’“Orcolat” (nome con il quale i Friulani sono soliti chiamare il terremoto).

Oggi il Friuli è stato ricostruito e questo è un dato di fatto storico. Qui sono nate la Protezione civile – con l’impiego dei militari, gli Alpini in primis, nell’opera di primo soccorso – e anche un Federalismo anticipatore, che ha fatto della delega politico-amministrativa ai sindaci dei comuni colpiti dal sisma la carta vincente della specialità regionale, oggi in crisi e presa d’assalto dalle Regioni ordinarie e da un neocentralismo post-crisi.

Certo c’è da chiedersi perché il cosiddetto “modello Friuli” non sia stato copiato da altre parti d’Italia; perché quella autonomia e quella assunzione di responsabilità dei primi cittadini non abbiano sortito gli stessi effetti nel Meridione d’Italia, in Abruzzo o in Emilia. Perché quella strada non sia stata nemmeno sperimentata. Infine c’è da chiedersi perché la ricostruzione appare sempre di più come un “business e basta”, magari accompagnato da qualche tangente, e non un imperativo categorico di una classe dirigente che voglia dirsi e considerarsi tale.

In Friuli, oltre a commemorare le vittime e a discutere sui “tasselli” che ancora mancano al mosaico completo, si discute se quell’esperienza possa essere utile per uscire dalla crisi economica più dura del dopoguerra utilizzando la leva dell’autonomia, del federalismo, del sistema delle deleghe.

Manifestazioni di commemorazione si sono svolte in tutti i centri colpiti dal sisma di 39 anni fa, ma con Gemona sempre al centro. La presidente del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ha ribadito che «i valori della ricostruzione sono un tesoro a cui attingere in periodi di crisi e ripartenze». Si tratta, per la presidente, «di principi che sono la base necessaria e importante per confrontarsi con la crisi, per ricominciare da capo e diventare più forti di prima».

I Friulani che in questi anni hanno perso il lavoro – un totem in una regione dove si sono prima ricostruite le fabbriche prima delle case – lo sperano. Sperano che quelle virtuose assonanze di 39 anni fa, quando comunque le forze politiche in campo mantennero inalterate le rispettive specificità, possano ripresentarsi per aiutare queste terre a ripartire. Lo vogliono i cittadini colpiti dal sisma, lo vogliono i figli di coloro che scavarono a mani nude fin da subito, lo chiedono le forze politiche e sindacali nei tanti incontri di questi giorni.